Tra i molti termini che la nostra politica in un momento di crisi utilizza (e banalizza) come strumenti dell’affannoso gioco coalizionale c’è anche quello di “europeisti” (oltre che popolari, socialisti e liberali … per buona misura!), termine che viene assegnato per definire una raccogliticcia pattuglia parlamentare che dovrebbe consentire la formazione di una maggioranza di governo. Sembrerebbe un attributo assolutamente encomiabile: come non dichiararsi tali appena ci si soffermi a pensare in che situazione si troverebbe il nostro paese se dovesse “fare da sé” nel contesto della pandemia che non recede, degli Stati Uniti impegnati nella faticosa ricerca di un equilibrio post-trumpiano, dell’ascesa della Cina verso il podio delle potenze che definiscono l’ordine internazionale e mentre in Russia si annuncia il complicatissimo inizio del tramonto del regime di Putin?
Poiché la questione del rapporto dell’Italia con l’Europa, o meglio con l’Unione Europea, è cosa più che seria, lasciamo per il momento da parte la crisi in corso e i modesti maneggi parlamentari che vi si svolgono e chiediamoci cosa vuol dire essere europeisti. E’ bene ricordare che si tratta innanzitutto di una scelta fondamentale e sostenuta da molti solidi argomenti: significa ritenere che, per il bene del nostro paese (ma contemporaneamente per quello di tutta quella area non solo geografica, ma ancor prima culturale, economica e politica che chiamiamo Europa), sia meglio rinunciare alle sovranità esclusiviste degli stati nazionali e procedere sulla strada di una integrazione di tipo federale che, salvaguardando le diversità e ampi spazi di autonomia degli stati membri, crei una robusta sfera di sovranità europea comune e condivisa per gestire alcune importanti sfide politiche, socio-economiche e di sicurezza del nostro tempo.
E’ evidente che se una forza politica si oppone a questa scelta di fondo, pur essendo questa posizione legittima in un sistema liberale e democratico, essa si auto colloca in una posizione di marginalità politica (un po’ come succedeva nell’800 a chi difendeva gli stati preunitari). Quindi un partito che come la Lega o, seppur con toni più ambigui, i Fratelli d’Italia, ha costruito la propria ascesa cavalcando il risentimento di una parte del pubblico verso l’Unione europea e le sue politiche, deve oggi chiarire in modo inequivocabile e con atti concreti (come abbandonare il gruppo sovranista del parlamento europeo) la propria posizione se vuole essere preso seriamente in considerazione nella formazione di un governo. Questo non vuol dire naturalmente che non si possano rivolgere critiche anche severe alle concrete scelte di Bruxelles, come ad ogni governo democratico; ma si deve rendere chiaro se si è a favore o contro un processo che trascende le singole specifiche politiche.
In un paese in cui tutte le forze politiche in passato si dichiaravano europeiste, ma che troppo spesso si sono dimenticate di che cosa questo comportasse, come quando, mandata in soffitta con l’adesione all’Unione monetaria la politica nazionale delle svalutazioni competitive, non ci si è adoperati per sviluppare le politiche economiche e fiscali che avrebbero potuto assicurare la crescita del sistema produttivo, vale la pena riflettere seriamente e nel dibattito pubblico su che cosa voglia dire scegliere l’integrazione europea.
Essere europeisti vuol dire prendere sul serio tutte le responsabilità che derivano per un paese e per la sua classe politica da quella impegnativa scelta di fondo. Per un grande paese come l’Italia questo significa non essere un soggetto passivo che si aspetta che l’Europa sia una dispensatrice di aiuti (e che si lamenta se questi arrivano accompagnati da condizioni), ma pensarsi prima di tutto come un soggetto attivo che, con le sue proposte e risorse, contribuisce a dare forma a questa grande impresa e a correggerne i limiti. Significa poi riconoscere che il complesso equilibrio di questa inedita forma politica che è la UE richiede a tutti i soggetti di attenersi ad una disciplina di comportamenti politici ed economici (e di bilancio) tale da rafforzare la fiducia reciproca tra gli stati membri e da giustificare l’adozione di misure importanti di solidarietà.
In un momento poi in cui l’Unione Europea, compiendo un importante e decisivo passo in avanti nella direzione della solidarietà sovranazionale, mette in campo con il programma Next Generation EU importanti risorse di aiuto agli stati membri per superare la crisi pandemica e per delineare un comune percorso di cambiamento nei modelli produttivi, noi di Insieme crediamo che essere europeisti significhi non considerare questa iniziativa come una pioggia di denaro da spartire e disperdere in mille rivoli. Crediamo invece che questo sia il momento di affrontare un riesame molto profondo dei problemi di lungo corso del paese e di predisporre un severo piano di riforme degli apparati statali e del sistema economico nazionale che ci mettano in grado di rimettere in carreggiata il sistema Italia e di non sprecare risorse che in buona parte sono a debito. E’ quello che cerchiamo di fare con i nostri programmi.
Nei prossimi mesi, ma già dai giorni di questa crisi, il vero test dell’europeismo delle forze politiche (di governo e di opposizione) sarà ben più impegnativo di un distintivo da mettere all’occhiello o di qualche correzione superficiale della propria linea politica.
Maurizio Cotta