La sentenza della Corte costituzionale n. 161 del 24 luglio 2023 ha ribadito che il consenso dato dal partner maschile a un processo di fecondazione assistita non è revocabile, anche se il rapporto di coppia s’interrompe. Della questione se n’era occupato il Tribunale di Roma.
Una coppia aveva fatto ricorso alla procreazione assistita (PMA) senza procedere immediatamente all’impianto dell’embrione nell’utero materno, perché la donna aveva dovuto sottoporsi ad alcune cure mediche. Successivamente, dopo due anni dalla formazione dell’embrione in vitro, il rapporto coniugale si era rotto con conseguente separazione e divorzio dei coniugi. Nell’occasione il marito aveva chiesto formalmente la revoca del consenso già prestato alla procreazione assistita. La donna invece ha chiesto alla struttura sanitaria competente di procedere all’impianto dell’embrione crioconservato per portare a termine la gravidanza. Il Tribunale ordinario di Roma ha sottoposto la questione alla Corte Costituzionale e la decisione (relatore Luca Antonini) ha disposto l’irrevocabilità del consenso manifestato dal partner maschile, autorizzando l’impianto dell’embrione nell’utero materno.
La Corte ha dovuto valutare, nell’ambito di una «scelta tragica», se il venire meno della condizione di coppia possa giustificare la revocabilità del consenso paterno precedentemente dato alla filiazione, oppure se, una volta avvenuta la fecondazione, il consenso espresso al momento del trattamento sia prevalente, costringendo il padre ad accettare una filiazione non più voluta.
Secondo la Corte la norma che autorizza la revoca del consenso paterno soltanto fino al momento della fecondazione non contrasta con i principi costituzionali.
Non contrasta con il principio di uguaglianza, perché lo status dell’uomo e della donna sono diversi. Se alla madre è riconosciuta la facoltà di non procedere all’impianto dell’embrione in ogni tempo, del tutto diverse sono le condizioni di responsabilità del padre. Quando questo ha sottoscritto il consenso alla PMA sapeva che gli embrioni potevano essere crioconservati ed essere utilizzati in un tempo successivo, secondo la libera autodeterminazione della donna e che a questo atto di responsabilità consegue il riconoscimento dello stato di figlio.
Per la Corte non è consentito subordinare il destino giuridico di un figlio ai mutamenti della volontà del padre, se non nei casi particolari previsti espressamente dalla legge. La volontà materna prevale su quella del padre perché la donna ha messo a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo e questo investimento ha “determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità”.
La sentenza non tralascia di sottolineare anche un altro valore: la dignità dell’embrione, che “ha in sé il principio della vita” e non è riducibile a mero materiale biologico.
La procreazione assistita mira a favorire la vita, favorendo la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana. In questo senso interpreta la cornice personalista descritta dall’art. 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Il richiamo all’articolo 2 è illuminante. La legge sulla procreazione assistita consolida un orientamento di cultura giuridica emergente. Le libertà fondamentali non possono essere riconosciute soltanto al singolare ma devono tener conto anche di contesti collettivi. Del resto le posizioni giuridiche protette non sono solo individuali ma anche plurindividuali, dove l’interesse del singolo è costretto a venire a patti anche con altri interessi. In questa differente concezione antropologica, il rispetto della vita privata (del padre) non è tutto e può cedere nella prospettiva di far salva l’aspettativa genitoriale della mamma assieme all’aspettativa di vita di un figlio.
In questa differente dimensione si aprono nuovi spazi per il riconoscimento di diritti speciali: della famiglia innanzitutto, delle donne, gli embrioni, i minori, gli anziani, gli infermi, le minoranze di ogni genere. Una platea ampia di soggettività deboli e di diritti, propri di una società interdipendente, che si unifica sulla base di regole di condotta fondate sulla solidarietà sociale.
Per questo Francesco D’Agostino proponeva di elaborare un nuovo linguaggio di comunicazione universale, dove i diritti coesistono accanto ai doveri. Proponeva che «i diritti umani devono essere riformulati al duale: cioè attraverso formule linguistiche nuove. Gli uomini hanno diritti perché sono gli uni con gli altri, perché l’esistenza dell’uno richiede l’esistenza dell’altro, perché nella loro identità il singolare si unisce al plurale».
Guido Guidi