La Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente sul Suicidio Assistito alcuni anni dopo la precedente sentenza n.242/2019 che,invero,si era limitata a prevedere la non punibilità dell’aiuto al suicidio in alcuni casi,«senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici»(v. G.Razzano, Comitato Nazionale di Buoetica, Marzo 2024).
In tale provvedimento, la Corte aveva affermato che il comportamento di chi «determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio,ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione», resta un reato punibile con la reclusione da cinque a dodici ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, salvi i casi indicati dalla sentenza citata,diventerebbe con la legge 219/2017, a talune condizioni, addirittura un atto sanitario obbligatorio, a cui i medici potrebbero sottrarsi solo con l’obiezione di coscienza, peraltro,disciplinata in modo talmente indeterminato da metterne a rischio l’esercizio.
La Corte, nella motivazione, aveva, inoltre, indicato al Parlamento l’importanza di provvedere a disciplinare la delicata materia,senza che venisse approvata alcuna normativa negli anni successivi.
In particolare, il DDL Bazoli, presentato al Senato, esprimerebbe, secondo la Razzano, la volontà politica di normalizzare l’aiuto al suicidio, introducendo proce dure organizzate e doveri di prestazione da parte delle Regioni,tenute a garantire un tale “servizio”(!!).
Tale testo legislativo, secondo l’opinione della studiosa,presenterebbe, inoltre, evidenti profili di incostituzionalità laddove esso prevede che il paziente, ricorrendo al Giudice, possa comunque ottenere un farmaco letale contro il parere dei medici..
In tal modo la proposta di legge avanzata i finirebbe per scardinare i principi della stessa sentenza n. 242/2019, che, invece, ha dichiarato non punibile il reato di aiuto al suicidio nelle situazioni in cui il proposito suicida si sia formato autonoma mente e liberamente in una persona che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale,affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili ed è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Le condizioni e le modalità di esecuzione dovrebbero,comunque, essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del Comitato Etico territorialmente competente; nel rispetto delle modalità stabilite dagli articoli 1 e 2 della legge 219/2017 sul Consenso informato ed il paziente dovrebbe essere coinvolto in un percorso di cure palliative, pre-requisito di altre scelte.
Va sottolineato che in base allo stesso DDL,se fosse il Giudice ad autorizzare il farmaco letale, in caso di diniego, la decisione finale verrebbe adottata al di fuori della relazione fra medico e paziente e a prescindere dai controlli di carattere etico-clinico sulla sussistenza di tutti i requisiti menzionati-
In tal modo i Giudici potrebbero contestare queste valutazioni e reinterpretare a modo loro i requisiti di non punibilità del reato di aiuto al suicidio, con l’ulteriore conseguenza di generare disuguaglianze (smentendo chi sostiene che una legge nazionale porterebbe uniformità di trattamento).
Sembrerebbe che tale indicazione, contenuta nel DDL Bazoli, abbia ispirato la Corte delle Leggi ad emanare la nuova sentenza in commento in base alla quale i Giudici dovranno valutare caso per caso ogni singola vicenda giudiziaria riguardante il suicidio assistito in piena autonomia ma anche “sulla base dei principi espressi nella sentenza del 2019, se una persona è incriminabile in merito alla pratica del suicidio assistito”.
Il DDL Bazoli, fra l’altro, amplia la platea dei soggetti che possono accedere al suicidio assistito, prevedendolo per chiunque sia affetto «da una patologia irrever sibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile» (articolo 1 del testo), mentre la sentenza 242/2019 si riferiva, piuttosto, alla «patologia irreversibile».
Se poi si ritiene che il Legislatore sia libero di discostarsi dai requisiti individuati dalla Corte per facilitare l’aiuto al suicidio, che diritto non è, si deve coerente mente ammettere che possa esserlo anche qualora ritenga invece opportuno garantire adeguatamente il fondamentale diritto alla vita.
A riprova, la Rozzano ricorda, la sentenza Nicklinson della Corte Suprema del Regno Unito, che la stessa Corte Costituzionale ha voluto richiamare nell’Ordinan za n.207/2018,sempre a proposito dell’articolo 580 del Codice penale, con cui ha affermato che spetta al Parlamento decidere se e come cambiare le norme e che, inoltre, la scelta di permettere in alcuni casi l’aiuto al suicidio è assai problematica rispetto alle persone con disabilità che dipendono dagli altri, per la pressione sociale indiretta che ciò potrebbe comportare per loro.
Come ha commentato sul delicato argomento L’Avvenire, nel nuovo dispositivo emanato dalla Corte e pur nell’ambito dei paletti già fissati dalla sentenza del 2019, ci sono più casistiche di cui tenere conto:
“La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o ‘caregivers’ che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Inoltre, la stessa Corte ritiene che la nuova decisione sia destinata a lasciare una traccia decisiva nel cammino dei diritti e che costituisca un altro passo avanti nella storia sofferta di chi è stato condannato, per malattia o incidente grave, a perdere l’autonomia vitale,diventando schiavo di una macchina o di un’assistenza fisica che consente la sopravvivenza stessa.
La svolta della Corte sta nell’affidare alla figura del Giudice il potere di stabilire il margine di sofferenza per quel “trattamento di sostegno vitale” con la possibilità di mettere fine alla vita con una propria decisione (!!) che appare,tuttavia,priva di quella regolamentazione normativa che compete unicamente al Parlamento
Sul punto, la Corte rinnova”il forte auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, fermo restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati”(..)”affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliati se appropriate per controllare la loro sofferenza”.
Sta di fatto che la Corte Costituzionale, afferma che «nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza».
La sentenza n. 135 depositata giovedì 18 luglio, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate dal Gip di Firenze sull’articolo 580 del codice penale, che miravano a estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019, relativa al caso di Dj Fabo,ribadisce quali siano i requisiti già delineati :
(a) irreversibilità della patologia,
(b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili,
(c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale,
(d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli – «devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza».
Per quanto riguarda la possibilità di incriminare una persona la Corte delle Leggi ha precisato che i saranno i Giudici a dover valutare caso per caso ogni singola vicenda giudiziaria, spetterà cioè a loro,in autonomia, valutare, «sulla base dei principi espressi nella sentenza del 2019, se una persona è incriminabile in merito alla pratica del suicidio assistito».
Un altro passaggio decisivo della nuova pronuncia, riguarda la nozione di “trattamenti di sostegno vitale”, che «deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai Giudici in conformità alla ratio della sentenza del 2019» poiché ci sono più casistiche di cui tenere conto atteso che «la nozione include anche altre procedure normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».
Per il Presidente di “Pro Vita & Famiglia”, «a seguito di questa interpretazione aumenta il numero di casi in cui si potrà aiutare una persona a suicidarsi, velocizzando la tragica deriva eutanasica».
Inoltre, per le oltre 100 associazioni “Ditelo sui Tetti” la sentenza offre invece «importanti indicazioni alla società e al Parlamento»,soprattutto perché «viene documentato il valore oggettivo del diritto alla vita per poi ribadire la necessità della tutela dell’esistenza dei più fragili, che “potrebbero convincersi di essere diventate ormai un peso”.
Secondo il CS emesso dalla Corte «Le questioni nascevano da un procedimento penale contro tre persone che hanno aiutato un paziente affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, ad accedere al suicidio assistito in una struttura privata svizzera.
Il GIP ha rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto, ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019. Il GIP, a questo punto, ha chiesto alla Corte di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La sentenza n. 242 del 2019, invero,non aveva riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma aveva soltanto «ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito in base al diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza.
Appare evidente che tale decisione non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti» (paragrafo 7.1 dell’odierna sentenza).
Quanto all’autodeterminazione terapeutica, la Corte ha ribadito che ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza.
Il diritto, invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili.(!!)
La Corte ha poi sottolineato che, dal punto di vista dell’Ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge (!!).
La nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’Ordinanza di rimessione e connessa alla concezione che il paziente ha della propria persona – nozione alla quale pure la Corte «non è affatto insensibile» – finisce poi per coincidere con quella di autodeterminazione.
Anche rispetto ad essa resta quindi necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana (paragrafo 7.3.).
La Corte ha negato inoltre la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l’incriminazione dell’assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana (paragrafo 7.4.).
Tale sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipenden temente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività.
La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019 (ancora, paragrafo 7.2.).
In definitiva, la Consulta afferma in sentenza che “la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai Giudici in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019”.
La Corte ha riaffermato, inoltre, la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019.
Appare, quindi, necessario, per tutti i fatti successivi al 2019, che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del Comitato etico competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite.
Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del Giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo (paragrafo 9).
In conclusione, con la sentenza in commento, la Corte torna a richiamare il Parlamento esprimendo «il forte auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza».
Considerare, tuttavia,“suicidabili” i malati cronici, i “grandi anziani” e gli invalidi, indirizzando queste categorie verso percorsi finalizzati alla “morte volontaria medicalmente assistita”, risulterebbe in contrasto non solo con il diritto alla salute e con il principio della pari dignità sociale, ma anche con le più recenti affermazioni della Corte costituzionale, secondo cui il diritto alla vita, «valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona», deve essere garantito soprattutto nei confronti dei soggetti «più deboli e vulnera bili».
Mario Pavone