Il vademecum della Pontificia Accademia per la vita e le successive interviste del Presidente Monsignor Vincenzo Paglia, hanno scatenato una serie di interviste e articoli sull’argomento: chi per evidenziare l’apertura vaticana per una legge sul “fine vita” (in realtà questa dizione è volutamente implicitamente  confusa come “eutanasia”), chi per criticare aspramente il cedimento dottrinale sulla intangibilità della vita stessa (forse più per polemica “ a prescindere”, come se ci fosse bisogno di qualcuno che custodisca l’intangibilità della dottrina, non  difesa a sufficienza dall’attuale Papa), chi per sottolineare la continuità del pronunciamento rispetto all’insegnamento della Chiesa e che quindi tutto è in linea con la Dottrina…, chi per disquisire sottilmente con la dottrina giurisprudenziale per trovare il punto di caduta che concili la morale, la dottrina, il comun sentire e disciplini i comportamenti di tutti….

Tutto questo “chiacchiericcio” è assai poco “sinodale”, ossia poco aperto all’ascolto reciproco e all’approfondimento delle ragioni di tutti, e tende a “sorvolare” sulla essenza profonda del problema che per la Chiesa, ma anche per la società civile,  è innanzitutto come “vivere la Morte” e come  difendere la vita umana, specie dei più deboli, in un mondo che –grazie alla tecnologia – costringe a cercare soluzioni socialmente condivisibili là dove fino a qualche decennio fa, era il corso naturale e fisiologico dell’incedere della vita a definire i confini del vivere e del morire, e che specie nel mondo occidentale – ha smarrito la capacità di avere un pensiero  collettivo sulle questioni prima ricordate che da millenni accompagnano l’esistenza di questo strano essere della specie “homo sapiens”.

Immaginiamo lo smarrimento che proverebbero i nostri antenati, anche solo di qualche decennio fa, di fronte alla necessità di legiferare, non tanto per difendere la vita dei più deboli, ma per definire quando è legittimo farsi aiutare a morire!

Il punto da cui partire, spesso ignorato, è il destino di morte che ci accomuna, fin dal concepimento: è identico a tutte le altre specie viventi, ma la nostra specie ne ha drammatica consapevolezza.

La morte è il “gemello siamese” della vita: se non colte assieme non si comprende né il vivere né il morire.

Il vivere risplende davanti al morire, caricandosi di tutti i desideri, di tutte le aspettative, di tutte le lotte per rendere questo spazio temporale in cui “viviamo” il più bello e soddisfacente possibile, abitandolo con le nostre passioni, con la nostra forza e intelligenza che ha creato arte, scienza, tecnica, e un miglioramento costante delle nostre condizioni materiali di vita, oltre che affermare il dominio su tutte le altre specie viventi, ricorrendo a continue modalità “estrattive” sulla natura circostante, non raramente in forme biasimevoli.

Da sempre la morte è stata vista come un evento inaccettabile e inquietante, pur se ineluttabilmente legato alla vita, che in vari modi l’umanità ha cercato di esorcizzare: cesura verso una nuova vita futura, compimento e premio per ciò che non si è realizzato, passaggio per nuove successive vite in cui reincarnarsi, o anche “forza creativa” che spingeva a dare senso e compimento al vivere, allungandolo il più possibile.

Di qui, nel corso della evoluzione storica, l’intangibilità della vita si è via via affermata in tutti i popoli, e grazie all’affermarsi di forme di diritto sempre più raffinate la società ha cercato e cerca di proteggere la vita dagli abusi del più forte: in fondo, la “pena di morte”, espressione della massima punizione (o vendetta) contro il reo, è a suo modo una affermazione della massima importanza della vita.

“Sei così colpevole o sono così potente da poterti togliere la massima espressione di te, cioè la vita stessa”: con la negazione si riafferma, in maniera di certo inaccettabile, il primato assoluto della vita per l’essere umano. 

Il medico, scienziato, cerusico o sciamano che fosse, era la persona che cercava, con le sue conoscenze, di alleviare sofferenza e dolore, guarire le ferite e le malattie, contrastare la morte.

Nel corso degli ultimi 100 anni, la medicina è diventata “scienza”, la tecnica l’ha fatta diventare sempre più potente, capace di “creare” la vita e strappare alla morte – cioè tenere in vita – persone che fisiologicamente non sarebbero potute sopravvivere, e il medico (paradigma di tutte le professioni sanitarie) è diventato “un operatore sanitario”, cioè colui che dispensa diligentemente (medicina basata sull’evidenza) ciò che è stato dimostrato utile per fronteggiare le malattie e gestire al meglio la vita

E questi sviluppi hanno indubbiamente migliorato e allungato la durata del nostro vivere: e reso spesso meno drammatica l’esistenza corporea. Il passaggio successivo – tutt’ora in corso – è stato quello di rendere fruibile a tutti queste opportunità: anzi renderlo “diritto intangibile”, con il corollario “assicurativo” nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto. E per rendere fruibile a tutti la potenza della medicina, coerente con lo spirito di potenza raggiunto, si è passati alla proceduralizzazione e la protocollizzazione delle cure, presentate come “qualità” da garantire erga omnes. 

Sganciata dalla sua dimensione primaria – relazione di cura e di aiuto- la medicina è diventata così una “pratica” regolata da “leggi meccanicistiche newtoniane” (ironia: proprio quando le “scienze esatte” hanno abbondonato le tetragone leggi di un universo regolato da un “orologiaio” perfetto): fatale che divenisse ostaggio prima delle regole economiche e poi di quelle assicurative e finanziarie.

La medicina, un bene a disposizione per espandere la vita.

Un bene espressione di quella “volontà di potenza” che andando fino alle origini primordiali della vita stessa ( il codice del DNA), ha affermato il potere incontrastato dell’uomo: e così si è passati da un “antropocentrismo relativo ad un universo creato” (quindi in fondo relativo) inaugurato da Cartesio, ad un “antropocentrismo assoluto” cui tutto deve essere assoggettato: in fondo sia l’ideologia green, che la pseudo-cultura woke fino al delirio del gender, altro non sono che l’affermazione assoluta del potere assoluto dell’uomo su tutto e su tutti (da imporre, ovvio, a chi non accetta: è sempre la legge del più forte..)

Espressione di massa di quella “volontà di potenza” non solo dell’uomo in quanto specie, ma di ogni singolo uomo, signore e misura di tutte le cose, vita compresa: da qui l’ipertrofia devastante dell’IO, messo in luce da molti autori.

Rimane la morte: problema insoluto, diventato oggetto da ostracizzare e allontanare dalla nostra quotidianità: si può uccidere (in guerra, per punire o per scelta volontaria di chi pensa di avere il diritto di poterla infliggere o dare), ma non si può morire.

La morte, separata dal suo gemello siamese che è la vita, è diventata “ineffabile”: si può solo sconfiggerla.

E così la potenza della scienza medica, non solo è chiamata a fare “miracoli” (e ne fa tanti), ma anche a combattere sempre e comunque contro la morte, anche quando sembra ineluttabile: “agiamo con la tecnica per tenere comunque la persona in vita, e poi vedremo cosa fare”: qualcuno, giustamente, lo chiama “accanimento terapeutico”

Adesso siamo al “vedremo cosa fare”.

Mentre in passato, senza tante riflessioni filosofiche, la vita – specie nella sofferenza e malattia – era sempre una vita di relazione: con i propri cari, con chi ti stava attorno, con gli eventuali “cerusici”, adesso nelle stesse condizioni, grazie al dominio incontrastato dell’IO, siamo soli: il medico è un tecnico (bravissimo per carità), la scienza medica è o sarà un algoritmo probabilistico di scelte e decisioni (e speriamo non siano dettate dalle assicurazioni o dalla finanza), i legami di prossimità sempre più flebili (anche la famiglia è stata travolta da relazioni basate solo sul tornaconto individuale), ma la morte è sempre lì, ostinata che non si lascia piegare dal nostro IO.

Invece di ricostruire, pur nella tecnica e nel rispetto della scienza, una relazione di cura, da sempre all’origine della risposta alla sofferenza, si sta scegliendo una strada diversa: mettere in mano al singolo (eccolo di nuovo l’IO ipertrofico che cresce ancora) la facoltà di decidere quando mettere fine alla vita, meglio se aiutato da terzi e con oneri a carico dello Stato : e per evitare la giungla delle interpretazioni, “legiferare”, ossia definire norme e procedure che poi i funzionari (i futuri medici o tecnici dell’etica) dovranno applicare per non fare “ingiustizie”: di fronte alla morte?

Il documento della Pontificia Accademia e le parole del suo Presidente cercano di costruire almeno un lessico comune per avviare una discussione, un confronto, finalizzato a rimettere al centro la “relazione di cura” con il malato, pur sapendo che in un mondo desertificato di relazioni, è un linguaggio difficile da far comprendere: e infatti molti si sonno affannati a cercare nel prontuario la descrizione o la procedura per definire quando un trattamento è “accanimento terapeutico”, quali sono gli strumenti tecnici che configurano un accanimento e quali invece gli strumenti fisiologici da non far mancare mai, così da porre un discrimine accettabile per regolare l’eutanasia. E anche chi contesta l’arrendevolezza dottrinale del documento le fa con lo stesse logiche – pur di segno contrario –  di chi lo vuole usare per arrivare all’eutanasia di Stato.

Non c’è e non ci può essere una definizione algebrica assoluta capace di regolare tutte le possibili situazioni, fatto salvo il divieto di uccidere o far morire attivamente un altro essere umano ammalato, anche se lo chiede.

E la “scorciatoia” di negare ogni scelta in nome della difesa della vita, non sembra cogliere il punto nodale del problema cui l’evoluzione tecno-scientifica (e la rimozione di Dio) ci ha portato.

E’ solo nella relazione di cura del malato con gli operatori sanitari, è solo nella relazione di prossimità della persona con i suoi cari e con coloro che lo aiutano nelle sofferenze del vivere che può essere cercata una risposta equilibrata e che va declinata di caso in caso: ben inteso, aiutando tutti a capire che l’eutanasia, ossia dare la morte attivamente ad un altro essere, è un atto contrario alla naturalità della vita! E che le false motivazioni di amore alla base di questo “aiuto”, in un contesto dove tutto è manipolato (dati, informazioni, decisioni) e lo sarà sempre di più nel futuro prossimo con l’IA, è un errore logico sesquipedale! E che mette a rischio la vita di tutti: nessuno escluso (e non è fantascienza….).

Anche il suicidio, gesto drammatico e disperato, non va mai favorito, anche se è da comprendere con profonda pietas, e nel silenzio. 

Un anziano affetto da demenza grave, non più autonomo in nulla, incapace di deglutire e di compiere anche i piccoli atti della vita quotidiana, che non riconosce nessuno e ha perso la parola, va tenuto in vita con la nutrizione enterale o con l’idratazione sempre più sofisticata che sappiamo mettere in atto? 

Non c’ è una risposta che vale per tutti: solo quella equipe curante che lo segue in una relazione di cura non inquinata e distrutta da logiche aziendali e economiche (come in essere con sempre più cattiveria, nell’indifferenza e rassegnazione di tutti: a proposito, dove è la differenza della sanità cattolica???) può valutare assieme ai suoi famigliari, le scelte che più lo rispettano e che accompagnino il suo percorso finale di vita. 

Ho provato il dolore, l’angoscia e lo smarrimento di una condizione del genere, pur con il “privilegio” delle  conoscenze derivanti dall’essere medico e all’interno di una relazione famigliare di prossimità, silenziosa e tenace. Mi è facile immedesimarmi empaticamente con le tantissime persone che si sono trovate e si trovano in condizioni simili, con l’aggiunta di una frequente solitudine straziante che operatori sanitari, preoccupati solo dalle procedure e dalle regole, inconsapevolmente trasmettono, e con flebili o assenti relazioni famigliari….. Che dramma umano!

O in situazioni patologiche irreversibili e clinicamente instabili, in presenza di un declino rapido e ineluttabile, continuare le terapie con ostinazione, sapendo che non c’è ragionevole possibilità neppure di stabilizzazione clinica, non è lo stesso modo di affermare la nostra volontà di potenza  fino al momento di decidere quando “chiudere” le macchine che tengono in vita?

Disporre quindi per legge, in base a qualche algoritmo, quando ci si deve astenere dalle azioni di cura?

Ci ricordiamo di Indy Gregory, la piccola neonata di pochi mesi affetta da grave malformazione cui è stato negato dalla corte inglese la prosecuzione delle cure nel “suo interesse”?

Curarli sempre? Far decidere dalla Legge quando non farlo? Far decidere dai tecnici? La vita e la morte non sono “oggetti” assoluti in sé.

In un contesto come l’attuale che nega la morte come condizione inscindibile dalla vita (e con essa nega anche il senso della malattia nella nostra parabola esistenziale) e che non sa più nemmeno cosa sia una “relazione di cura” tra malato e personale sanitario (disumanizzando sia l’uno che gli altri: che infatti soffrono e sono disorientati)  evitare ogni confine normativo appare pericoloso: purchè non si pretenda di legiferare con una casuistica disumanizzante o tutta procedurale (no alle ennesime unità multidisciplinari solo burocratiche e “terze” cioè imparziali: si può essere imparziali di fronte alla morte?)

Una volta stabilito che dare la morte in un quadro clinico stabile o aiutare a morire attivamente, è una pratica sempre illegittima, anche quando richiesta dal soggetto stesso, la via maestra appare quella di restituire la decisione di non interporsi attivamente al naturale declino della vita corporea alla relazione di cura costituita dal malato e/o dai suoi famigliari e dalla equipe curante all’interno di una relazione di prossimità, di ascolto, aiuto e supporto, cioè di cura: alcuni sceglieranno di non arrendersi mai (come non ascoltarli, rispettarli e negare loro questa scelta?), altri  chiederanno di essere accompagnati progressivamente verso il fine naturale del loro esistere, lasciando che la naturale fisiologia faccia il suo corso: in un processo condiviso e non ideologico o ideologizzato per interessi speculativi  o politici, mettendo sempre al centro non la decisione autonoma del malato e dei suoi famigliari, ma un processo condiviso e vissuto assieme, può essere una condizione percorribile.

Dove sono oggi le equipe e il personale sanitario preparati a svolgere questo inedito compito? E’ preparata la società, nelle sue diverse sensibilità, a vivere dialetticamente la dinamica del vivere e del morire?

In passato, di fronte a crisi sociali laceranti, sorgevano addirittura “università” dove si studiava, si dibatteva per affrontare e superare la lacerazione esistente: adesso il sapere è finalizzato a produrre….

Agiamo con energia per costruire una nuova medicina di prossimità, fatte anche (non solo) di “cure palliative e domiciliari” restituendo la centralità della cura della cronicità e fragilità  rispetto al “mantra” solo economico delle “liste d’attesa”,  investendo economicamente, anche in formazione specifica e diffusa,  invece che inseguire le tante pratiche sanitarie  “business oriented” che illudono di dare felicità e immortalità  (quindi inutili, anche se inserite in qualche benefit aziendale con il beneplacito sindacale…)

Agire con energia per riscrivere le regole di una sanità “umana” che coniughi scienza e tecnica all’interno di una inscindibile relazione di cura, “mandando al diavolo” le regole economiche e assicurative, con i loro corollari procedurali – di solito inutili – e sempre costosi, che oggi la governano.

E come sarebbe bello che i cattolici – invece di disquisire tra chi è continuista con la tradizione o modernista – con spirito evangelico, si mettano a costruire nuovi servizi sanitari dove, senza proclami o crociate, facciano toccare con mano come la Vita e la Morte siano inscindibili nella esperienza della nostra parabola esistenziale e che, pur nella naturale e umanissima angoscia, non si è mai lasciati soli nelle cure e nelle decisioni anche drammatiche.

Lasciando così aperto per tutti (credenti e non) il vecchio dubbio di Pascal: e se dopo la Morte ci fosse davvero la Vita Eterna?

Massimo Molteni

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