Si tratta naturalmente di una materia molto complessa e delicata. Sul quesito referendario all’esame della Consulta numerosi giuristi, consultati da «L’ Osservatore Romano», esprimono forti perplessità. Tra gli altri, anche sotto l’aspetto della morale, si nota il commento di Francesco Paolo Casavola, ex presidente della Corte Costituzionale: «Nel mondo contemporaneo, forse per esorcizzare l’ancestrale terrore della fine della vita, soffriamo il paradosso della morte desiderata. I più anziani fra noi, specie se hanno vissuto infanzia e adolescenza in un Italia per allora per due terzi rurale, disseminata di piccoli paesi, ricorderanno le urla disperate, strazianti, di morenti le cui famiglie, angustiate dalla povertà, non disponevano più di rimedi per dare sollievo alla sofferenza. Erano tempi ben lontani da quelli che sarebbero sopraggiunti con la urbanizzazione della seconda metà del 900, quando la morte sarà nascosta nelle cliniche e medici e medicine assisteranno il morente in quelle fasi che l’antichità latina indicava nella” impatientia doloris”, cioè della sofferenza insopportabile. La cultura cristiana ha introdotto nel dramma del finis vitae due persuasioni: il dolore deve essere accettato, e della propria vita non si può disporre. Secondo san Francesco d’Assisi, “morire perché si ama più il corpo che l’anima, è morire di una morte penosissima pur di ricongiungersi con Dio”: secondo San Tommaso Moro sono due polarità della spiritualità cristiana da non immiserire in affermazioni di principio, intransigenti ed astratte, quali sentiamo risuonare nei nostri tempi». L’equilibrio è un metodo sempre valido.
Unicuique sum, passando all’aspetto prettamente giuridico, secondo Cesare Mirabelli, anch’egli ex presidente della Corte costituzionale, «un referendum, che la Costituzione prevede esclusivamente come abrogativo, può essere ammesso solamente se il quesito è chiaro ed univoco, e se non è diretto alla introduzione di nuove norme. Questi elementi mancano nel referendum sull’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente». Secondo il giurista, per altro verso, «il quesito può essere considerato non univoco. L’omicidio è punito in via generale dall’art. 575 del codice penale. La punizione dell’omicidio del consenziente prevede solamente una pena ridotta. Se si abroga quest’ultima disposizione speciale, che riduce l’ambito della norma generale, si espande la comune punizione dell’omicidio?». In altre parole, «il quesito non sarebbe univoco perché potrebbe approvarlo sia chi vuole che valga in ogni caso la punizione comune per l’omicidio, sia chi al contrario vuole che l’omicidio del consenziente non sia punito affatto. Se poi, come ritenuto dal comitato promotore, il referendum intende introdurre un nuovo principio, quello della disponibilità della propria vita, capovolgendo quello in vigore, sarebbe un referendum propositivo e non abrogativo, che la costituzione non consente e quindi inammissibile».
Anche il giurista Damiano Nocilla conferma che «la Corte tende a negare l’ammissibilità di quei referendum abrogativi il cui esito determinerebbe un vuoto normativo. In questo caso, infatti, un risultato positivo della consultazione popolare lascerebbe del tutto indeterminati forme e tempi del consenso prestato dalla vittima dell’azione omicida. A questo proposito, non mi pare assolutamente corretto parlare di azione eutanasica, mancando nella nuova formulazione l’esplicito presupposto della pietatis causa come elemento essenziale dell’azione letale. È necessario un consenso esplicito o è sufficiente un consenso presunto? Basterà che la vittima abbia espresso un consenso generico oppure occorrerà un consenso puntuale? Ed in quale momento questo consenso dovrà essere espresso: nell’immediatezza dell’azione omicida oppure sarà sufficiente allo scopo un’espressione di volontà anche risalente nel tempo?».
Il magistrato Alfredo Mantovano invece ricorda che la prima obiezione di merito all’ammissibilità del quesito si ricava dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: «La sentenza 242/2019 sul caso del c.d. dj Fabo, pur criticabile perché introduttiva di un criterio di parziale disponibilità della vita (circoscritto alla sussistenza di precise condizioni), ha comunque enunciato princìpi fondamentali in materia di tutela della vita a fronte di una volontà dispositiva del suo titolare: se esse valgono per l’aiuto e l’istigazione al suicidio, a maggior ragione devono valere per l’omicidio del consenziente. La problematicità del referendum deriva anche da pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, per es. nel caso Pretty v. United Kingdom, ha precisato che un diritto di morire in quanto tale non è configurabile, né può essere legittimato alla luce della Convenzione europea dei diritti».
«Se il referendum fosse ammesso e approvato — sostiene il giurista — vi sarebbe il paradosso che, permanendo comunque il divieto degli atti di disposizione del proprio corpo, previsto dall’art. 5 del codice civile per il caso che essi “cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica”, sì da rendere invalido il consenso che taluno prestasse a subire lesioni che comportino una tale diminuzione, continuerebbe a rispondere di reato il soggetto che, con il consenso della persona offesa, producesse quel tipo di lesioni, mentre andrebbe esente da pena chi, sempre con il consenso della persona offesa, in luogo delle lesioni le producesse la morte. Si pensi ancora a una donna che, condizionata dal proprio contesto esistenziale, presti il consenso ad atti di mutilazione genitale, oggi sanzionati ai sensi dell’art. 583 bis del codice penale: la punizione dell’autore diventerebbe illogica in un sistema nel quale il consenso della vittima renda lecito l’omicidio». Un quadro fosco, che spinge naturalmente verso una sola direzione: quella che suggerirebbe invece ai legislatori di disciplinare la materia nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione.
Marco Bellizi
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