Sappiamo tutti che l’approvvigionamento di informazioni da parte di chi quanto meno “dimostri attaccamento alla conoscenza” avviene attraverso molteplici fonti di cognizione.

C’è chi studia libri “riepilogativi” di quanto ci è tramandato in un certo ambito. C’è chi spinge la conoscenza indietro nel tempo per arrivare alle sue sorgenti. C’è chi si accontenta (lo si afferma senza alcuna nota di biasimo) di tenersi informato. Come?

Ma con i giornali, oggi con i social media, da sempre con la partecipazione personale.

Dunque, senza presunzione, è necessario mettere in campo l’esperienza, diretta, concreta, sperimentata in un ambito, quello dei concorsi pubblici, complesso e assoggettato ad una molteplicità di chiaro scuri. Mettere in campo e mettere al servizio di un indirizzo politico.

Personalmente, sono stato sollecitato a farlo dal succedersi di alcuni articoli sul quotidiano “La Repubblica” firmati autorevolmente da Boeri e da altri studiosi.

Sia detto con la massima considerazione per il giornale e per i suoi ospiti – opinionisti dei concorsi e dei giovani bisogna interessarsi con partecipazione emotiva oltre che con ovvia competenza.

Ebbene, da questa pagina social, probabilmente, anzi sicuramente letta da pochi individui alla ricerca di una autentica trasformazione di sistema, deve farsi scaturire una informazione, per l’appunto, trasformatrice.

Nel Paese, almeno nell’ultimo quarantennio, la storia dei concorsi pubblici come modalità di accesso in condizioni di parità per tutti gli italiani e per tutte le italiane, ha mostrato una straordinaria cedevolezza al desiderio di tutti di entrare nei gangli vitali della Pubblica Amministrazione e di farli funzionare non in vista dell’interesse generale, cioè in esecuzione della legge, ma per obiettivi di parte.

Così, infatti, accanto ai funzionari pubblici “di carriera” sono penetrati nei ministeri, nella forma della consulenza contrattuale, in quella della diretta collaborazione con i titolari dei dicasteri, in quella della straordinarietà degli accessi, risorse che in linea di principio non rispondono ai principi costituzionali sulla materia.

Vediamoli. Per brevità, ricordiamo gli articoli 97 e 98: 1) (terzo comma dell’art. 97): “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”; 2) (art. 98 comma 1): “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

Oggi, nel tempo in cui si prende atto di una grave debolezza della Pubblica Amministrazione, debbono sottolinearsi non soltanto gli sviamenti intervenuti nell’adempimento della legge a causa di una certa crescente prepotenza politica (che della legge sembra avere noia) ma anche lo svuotamento delle competenze.

Proviamo a fare un breve, sintetico riepilogo della questione della Pubblica Amministrazione (avendo ricordo del dibattito generale su questa materia): s’è incentrato, soprattutto, sulla questione del costo di funzionamento. Che non si può negare essere un problema reale per come la P.A. ha costruito la propria organizzazione.

Sicuramente inefficiente, perché ha supplito, per certo, ad altre forme di salvaguardia dei diritti dei cittadini ad una vita dignitosa.

Per essere chiari, quello che oggi è il reddito di cittadinanza (segnato dal disprezzo per la tutela della dignità personale) nel passato ha assunto la sembianza di un ingresso massiccio nella P.A.. (quanto meno, con salvaguardia della dignità formale delle persone)

Un intreccio perverso, sovrastato fra l’altro, dall’espandersi delle funzioni pubbliche nell’area della produzione diretta di servizi. Ricordiamo gli anni ’80 contraddistinti dall’interrogativo “make or buy. Si intendeva già allora, mettere in campo un’analisi costi benefici sulla utilità che certi diritti, certe aspettative generali, venissero soddisfatti con impegno diretto delle P.A. ovvero con l’acquisto sul mercato.

I dati d’analisi di quell’opzione, per mia memoria, non sono mai stati trasparenti, non tanto da orientarsi con decisione verso un obiettivo di interesse generale.

Troppi interessi particolari, che tutti conosciamo e quindi non enumero.

Sta di fatto, per restare al tema, che l’opzione è risultata insoddisfacente su entrambi i fronti: servizi pubblici largamente inefficienti, acquisti sul mercato largamente inadeguati per qualità e per costo.

Perché? Perché la Pubblica Amministrazione, per il susseguirsi di interventi di razionalizzazione orientati (apparentemente) al contenimento dei costi di funzionamento ha subito un gravissimo depauperamento delle competenze.

Come si dice in molte parti del nostro Paese, la Pubblica Amministrazione è diventata figlia di nessuno!

Allora, molto riassumendo, non c’è stata evoluzione “scientifica” amministrativamente orientata, nella progettazione degli apparati pubblici, umani e strumentali.

A parte le scorribande di diverse categorie d’alto profilo, magistrati ordinari, magistrati amministrativi e contabili, funzionari parlamentari, dirigenti di ogni grado e rango, in territori che costituivano premessa di inguardabili conflitti di interesse, mai ritenuti tali alla politica (cui deve farsi risalire la responsabilità di quanto è accaduto), non è stato posto con la dovuta autorevolezza il tema dei temi: che è il seguente.

La Pubblica Amministrazione “i cui pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (articolo 97, comma 1 della Costituzione) non ha avuto in dono dalla politica (e dall’opinione pubblica, per la verità incolpevole perché orientata in questa direzione) il riconoscimento della propria centralità strategica sostenuta in primo luogo, dalla qualità delle proprie risorse.

Allora, sulla vecchia e stantia alternativa “make or buy”, può dibattersi ragionevolmente e nell’interesse generale se è certo che ove venga sciolta verso il buy (per una convenienza pubblica) se la Pubblica Amministrazione non ha risorse di controllo superiori per qualità, competenza ed efficienza a quelle presenti nel soggetto privato venditore di servizi:

La risposta è irrevocabilmente negativa.

Allora, per arrivare ad una ipotesi di lavoro concreta e indirizzata verso l’interesse generale, deve dirsi con chiarezza che la questione del pubblico concorso e di questa modalità di accesso alla Pubblica Amministrazione per i giovani, deve essere verificata in relazione alla capacità delle P.A. di gestire assennatamente il reclutamento.

Chiaro che il concorso pubblico costituisce una garanzia. Chiaro che è uno strumento congelato dalla consuetudine. Chiaro che una modifica dei concorsi pubblici ordinati a consolidare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione deve togliere di mezzo ogni opacità.

Il reclutamento pubblico deve costituire una edificazione di strutture cristalline, trasparenti.

Chiunque abbia esperienza in materia sa che incombe su chi gestisce le procedure concorsuali una pressione “impropria” molto diffusa che tende ad annacquarle, inquinarle, renderle improprie rispetto all’obiettivo di reclutare le migliori risorse del Paese.

Chiunque intenda affrontare, con volontà trasformatrice, questo argomento, deve farlo a partire da una proposta di cambiamento costituzionalmente sostenibile e concretamente attuabile.

Facile dire che le prove orali costituiscono sedi appropriate per l’esame più ravvicinato delle competenze dei candidati ai concorsi pubblici. Senonché, le prove orali, i colloqui, inseriti in una procedura competitiva non offrono garanzie di imparzialità delle procedure del reclutamento.

Allora, non ci sono speranze? No, ce ne sono.

Tutto deve prendere le mosse da una autentica riforma della Pubblica Amministrazione, da una riaffermazione della sua condizione di servizio verso l’interesse generale.

Tanto consolidato nella legge, occorre introdurre un principio di responsabilità diretta di chi opera il reclutamento in relazione al conseguimento degli obiettivi del bando di concorso.

Per esperienza diretta, pluriennale, so che chi è stato reclutato senza che fosse stata posta attenzione per il cammino successivo di quella risorsa, non verrà mai più giudicato sulla base delle doti possedute al momento del reclutamento.

Una volta entrati, basta poco a non mettersi nei guai.

Una volta che i ranghi della P.A. sono stati impropriamente appesantiti mediante il reclutamento di risorse inadeguate, nessuna responsabilità sarà fatta valere nei confronti di chi ha sbagliato il reclutamento.

Pur non avendo una particolare simpatia per il reclutamento in ambito privato, anch’esso soggetto a molte pratiche di identica inadeguatezza sociale, tuttavia va detto che un reclutatore inefficiente (salvo che non esegua ordini provenienti dalla proprietà) se incappa in errori di valutazione nelle assunzioni, prima o poi viene rimosso.

Quale forma di sanzione (recte: quale modalità trasformatrice) debba ritenersi necessaria è conseguenza di una effettiva volontà di cambiamento.

Non si dica che il problema non ha soluzione, perché in questo caso, chi lo dice incorre in una chiara responsabilità politica.

Allora, i giovani, non debbono essere invogliati a guardare a percorsi di lavoro pubblico attraverso sollecitazioni premiali improprie. Si deve dir loro che le competenze di cui si sono dotati servono allo Stato anche nella prospettiva dell’interesse generale.

E gli si deve fornire la garanzia dell’affidamento dello Stato. Perché se alcuni anni dopo aver servito con rettitudine e massimo impegno si trovano ad essere contestati per i traguardi conseguiti a causa di una cattiva rappresentazione politica del loro ruolo (piegata a biechi interessi di parte) allora è bene dir loro di non guardare alla Pubblica Amministrazione per l’avveramento delle personali aspettative di lavoro.

Insomma, per concludere, siamo ancora una volta in una condizione di arretratezza del sistema Paese.

Per rimetterlo in condizione di essere competitivo, efficiente, affidabile, giusto, occorre una nuova classe dirigente. Politica.

Alessandro Diotallevi

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