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Giusto processo: che cosa c’è dietro la pausa di riflessione – di Mario Chiavario

Proseguiamo la nostra riflessione sul cosiddetto “giusto processo” riportando il recente intervento  di Mario Chiavario pubblicato da Avvenire

“La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”.

È opportuno inserire una frase del genere nel testo della Costituzione e precisamente in quell’articolo 111 che dà ampio spazio alle garanzie del “giusto processo”?

Sembrava che al riguardo vi fossero le premesse per una risposta positiva largamente condivisa.

A dimostrazione, la concordata unificazione in tali termini di quattro distinte proposte di legge costituzionale presentate un anno fa al Senato in sintonia “trasversale” stanti le rispettive appartenenze partitiche e a riflesso di una sensibilità diffusa nell’opinione pubblica, con molteplici segni d’insofferenza per quelle che vengono sovente percepite come insufficienze della tutela attuale.

È però notizia di questi giorni che l’iter del provvedimento, non ancora giunto al primo voto dell’aula di Palazzo Madama, subirà un’ulteriore pausa di riflessione, giustificata dallo scopo di dar modo alla competente Commissione senatoriale, tuttora investita dell’esame preliminare del testo, di procedere ad un ciclo di audizioni di esperti.

Diciamo subito che quel testo, nella sua laconicità, non lascia intravvedere uno spirito analogo a quello che traspare dal “pacchetto sicurezza” approvato recentemente dalla Camera dei deputati e a sua volta presentato assai spesso come provvedimento a sostegno delle vittime: là, un tono e una sostanza pesantemente e pressoché esclusivamente “muscolari; spinti, in certi punti, a eccessi di compressione di diritti individuali e di libertà collettive, tali da porne in forte dubbio la compatibilità con i principi dello Stato di diritto e talora persino con postulati minimali di umanità; qui, l’indicazione, formulata in termini del tutto generali e senza menzione di compressione di diritti altrui, di un’esigenza che si direbbe addirittura ovvia.

Del resto, non è un caso che delle proposte poi fuse, come si è detto, in quell’unica frase tre fossero state presentate da esponenti di gruppi poi schieratisi risolutamente contro quel “pacchetto” (Partito democratico, Cinque stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, mentre la quarta promanava da Fratelli d’Italia).

Alla base della scelta di rimeditare l’opportunità dell’integrazione, nel senso indicato, all’art.111 appaiono piuttosto le perplessità manifestatesi, in particolare nel gruppo di Forza Italia, per il timore che ne possa venire alterato proprio l’equilibrio facente perno sulle garanzie del “giusto processo”.

La preoccupazione non può definirsi peregrina e tuttavia a me non sembra che il pericolo evocato si corra davvero.

Anche con l’aggiunta di quella frase rimarrebbe infatti senza modifiche tutto quanto, nell’articolo 111, si trova oggi enunciato.

In particolare circa il ruolo essenziale e centrale del principio del contraddittorio: a garanzia, non c’è dubbio, anzitutto di chi deve difendersi da accuse a proprio carico; e senza che ne debba venir meno il monito lanciato dalla Corte costituzionale quando ha escluso che possano porsi sullo stesso piano il contraddittorio “principale: che è quello tra pubblica accusa e difesa dell’accusato, e la pur legittima partecipazione al dibattito processuale ad opera della difesa della vittima, specialmente in quanto si costituisca parte civile.

Se, poi, si ritenesse invece fondato quel timore si potrebbe munire il testo di un’apposita “clausola di salvaguardia” (tipo “fermo restando …)” per salvaguardare appunto, e senza dar luogo ad equivoci, i diritti di chi vittima non è.

Potrebbe semmai osservarsi all’opposto che a causa della sua genericità quel testo rischia di restare una vaga enunciazione teorica – norma simbolo o norma-manifesto, insomma – senza assurgere al rango di un principio avente tangibili conseguenze pratiche.

Pure sotto questo profilo direi però che il rischio non è inevitabile, sempreché, da parte di chi sia chiamato a redigere o a votare leggi ordinarie oppure a metter mano all’organizzazione giudiziaria e amministrativa in attuazione di ciò che esse dispongono, non ci si riduca a trattare la nuova norma alla stregua di un condensato di belle parole con l’autorizzazione a un’inerzia soddisfatta anche del nulla.

Nelle norme, specialmente se di carattere costituzionale, si può invero leggere spesso anche una funzione propulsiva, a stimolo delle istituzioni affinché si adoperino, ad esempio qui per rendere sempre più effettivi diritti delle vittime altrimenti destinati a rimanere solo sulla carta.

Viene da pensare a una serie di diritti delle vittime di reati, i quali già trovano riconoscimento e dettagliata formulazione particolarmente in specifici precetti “direttivi” dell’Unione europea, ma per cui mancano spesso i supporti materiali e personali per metterli pienamente in pratica: tali, per non menzionarne che alcuni, il “diritto di ottenere informazioni fin dal primo contatto con un’autorità competente” o il “diritto all’interpretazione e alla traduzione” di atti rilevanti del procedimento penale per gli stranieri che non padroneggino l’italiano.

Il trovare in Costituzione un riferimento a quella “tutela” incentiverebbe forse gli sforzi per dar loro un’effettività sempre più adeguata.

Mario Chiavario

 

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