(I partiti, fondamentali pilastri e strumenti della partecipazione democratica, senza una legge che li regolamenti, sono diventati una variabile che preoccupa larghe fasce popolari.)

 Quella che segue è, né più né meno, una proposta di riforma istituzionale. Ha a cuore la salvaguardia della democrazia costituzionale e della Costituzione democratica

Muove dal presupposto, basato sull’osservazione di ciò che è avvenuto nel Paese, che i partiti costituiti non sono stati in grado di assicurare ai cittadini, donne e uomini, né  partecipazione né stabilità. Anzi, si sono dimostrati i principali agenti dell’instabilità addebitandone  le cause alla Costituzione e alle istituzioni, attraverso una prepotente occupazione della comunicazione. I cittadini, con l’unica eccezione dei primi anni ’90, li hanno sonoramente bocciati sia nella sondaggistica circa il loro ruolo sia nelle consultazioni referendarie indette sulle loro proposte istituzionali. In sintesi, i partiti mantengono forza nel recinto costituito (sebbene molte leggi siano incappate nei giudizi di incostituzionalità ) ma sono considerati e si sono dimostrati inadeguati nell’esercizio della funzione costituente permanente garantita dalla Costituzione. Detto ad abundantiam, e questo è segnale di massimo allarme per la stabilità della democrazia, hanno scambiato la Costituzione per una legge ordinaria, ignorando che la legge fondamentale ci tiene insieme tutti (a prescindere dagli interessi di parte) mentre le leggi ordinarie ci danno i criteri di funzionamento della società secondo  contingenti maggioranze.

Allora, c’è una priorità logica e cronologica da considerarsi per rinforzare radici, intelaiatura e frutti dell’alberatura democratica  del Paese: i partiti, con legge, debbono rispettare le leggi cui tutti gli altri sono tenuti. E, quando la violino, secondo quanto in essa previsto, debbono subire le sanzioni necessarie alla salvaguardia della Repubblica.

Si tratta di una legge ordinaria ma ha consistenza costituente e, per questo, deve essere sostenuta da uno sforzo costituente della sovranità popolare che si incarni in una proposta che gli attuali partiti non possano ignorare.

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È vero che “ i libri più utili sono quelli i cui lettori compiono essi stessi metà dell’opera; sviluppano i pensieri di cui si mostra loro il germe; correggono ciò che sembra loro difettoso e fortificano con le loro riflessioni ciò che appare loro debole”. Molto semplificando, i sistemi sulla natura e il funzionamento della democrazia, sui suoi agenti e protagonisti, sul suo potenziale di sviluppo e sulle sue crisi, si sono susseguiti per almeno 2500 anni. Ed ancora siamo a discuterne senza avere in serbo, salvo che non si battano vie dialettiche fallaci e millantatrici, conclusioni che le assegnino le caratteristiche di certezza ed affidabilità che vorremmo essa avesse per garantirci il presente ed il futuro con la stabilizzazione dei suoi tratti distintivi principali, cioè della giustizia, dell’equità, della pace, della partecipazione e del bene comune.

Ecco, queste poche riflessioni che seguono, poco più o poco meno dello sputo di Magog in un pozzo, considerando la democrazia non intrinsecamente indesiderabile né intrinsecamente irrealizzabile, qui ed oggi, nella cornice costituzionale vigente, vengono da me offerte per essere sviluppate e corrette, non tanto per conservare la democrazia ma, considerandola acquisita e da non confinare nel “mondo di ieri”,  per farla evolvere in una logica di trasformazione che la liberi dalle insidie via via incuneatesi negli spazi di libertà che essa garantisce.

Insomma, intendo dichiarare di aderire incondizionatamente alla teoria secondo la quale “l’odierna democrazia su vasta scala (resa ancora più complessa dalla globalizzazione) possa conservare tutti i vantaggi derivanti dalle proprie dimensioni (e dal progresso) e, al tempo stesso, mantenere le virtù e le possibilità della democrazia su piccola scala, trascurando i limiti di entrambe (ed applicando il progresso per eliminarli). Con la finalità, ambiziosa, di realizzare un bene comune che sia identificato come tale e non come sommatoria e combinazione di interessi individuali, a legislazione costituzionale vigente.

Il ricorso al concetto di extra profitto non persegue l’intento di sfruttare la scia della popolarità (capacità di influenza) di questa espressione. Viene qui introdotto come categoria epistemologica emergente per rinforzare la missione del costituzionalismo, splendidamente definito “tecnica della libertà”, a superare la tendenza semplificatrice di “spiegare sempre tutto con la politica”.

In cosa consistano gli extra profitti delle banche, al di là del tecnicismo della materia, è chiaro. Le banche hanno lucrato un margine a loro vantaggio tra interessi attivi e passivi e proventi e oneri propri dell’attività bancaria e finanziaria. Insomma, l’intervento pubblico ha inteso incidere una rendita di posizione del sistema bancario né derivante da capacità  d’impresa specifiche, né da razionalizzazione del comparto. In questo tempo di grandi incertezze internazionali, altri settori ne hanno approfittato accumulando profitti straordinari; per tutti il settore energetico. Tanto determinatosi, senza, peraltro, un fondamento di illegalità/illegittimità, il Governo ha ritenuto di intervenire immettendo nel sistema bancario un’imposta straordinaria calcolata sull’incremento del margine di interesse (cioè un’imposta sugli extra profitti). È intervenuto con misure urgenti e con una forte copertura “morale” , consistente nell’esercizio della propria responsabilità politica di evitare accumulazioni ingiuste di ricchezza, ingiuste, non illegittime né illegali. Insomma, il Governo è intervenuto sì facendo uso di poteri conferiti dalla legge ordinaria, purché in sintonia con la  Costituzione, (questione da valutarsi alla luce degli articoli 3 e 53) ma ha comunque attivato meccanismi legislativi retroattivi; è intervenuto ex post.

Riassumo per comodità di esposizione. Il sistema bancario, a causa della odierna contingenza economica, ha accumulato profitti ingentissimi. Ciò è avvenuto senza una violazione di legge. È intervenuto il Governo attivando i propri poteri legittimi, con una legge di carattere tributario, e ha tagliato quei profitti. Che, poi, il sistema delle banche abbia alzato barriere protettive non rileva ai fini e par le finalità della presente esposizione.

Apparentemente, come è lumeggiato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in ambito tributario, il legislatore (in questo caso il Governo legislatore, in attesa di esplicita conferma da parte del Parlamento) se non viola principi di proporzionalità e ragionevolezza ma resta all’interno dell’ampio recinto dell’interesse fiscale generale non incorre nel rischio che la sua decisione sia giudicata incostituzionale. Allora, qual è il motivo di contestazione? Io credo che la questione si debba riportare su un piano più generale.

La copertura costituzionale dell’intervento fiscale dello Stato non è detto che non concretizzi una condizione di affievolimento di altri principi costituzionali generali e tra questi il principio di affidamento nell’ordinamento pubblico e nei suoi poteri, nonché la certezza del diritto. In una sede contenziosa, sarebbe facile interrogare i titolari dei diritti conseguenti al principio del legittimo  affidamento nell’ordinamento pubblico. Nel caso di specie il sistema bancario. Questo, nel suo complesso, ed in linea teorica, può reagire in relazione alla modalità scelta dallo Stato di rettificare la sua autonoma capacità di costruzione del profitto. Può cioè contestare la politica fiscale dello Stato.

Ciò avviene in una logica di separatezza del pubblico e del privato che, mi pare, costituisca una delle cause di distanziamento tra il paese legale e il paese reale, come se quest’ultimo non facesse parte del primo, con la conseguenza di una implicita e forse non voluta violazione di un cardine del liberalismo democratico (“Liberalism, indissociably economic and political, made the depersonalization of the world… La più auspicata condizione del progresso e della libertà).

Ma, in una logica di ricongiunzione di pubblico e privato, di paese legale e paese reale, in una logica di indifferenziazione delle responsabilità generali verso il popolo, ciò che può apparire legittimo e costituzionalmente coperto si rivela al contrario proteso verso l’avveramento di un vizio grave non solo del liberalismo ma della democrazia, quello della personalizzazione. Perché il Governo interviene sugli extra profitti delle banche? Perché gli è consentito. Perché, così operando, rompe la logica del liberalismo e quella della Costituzione?

La risposta, me ne rendo conto, non è automaticamente condivisibile. Ma questo è  lo scopo di questa riflessione che verrà disvelato nella sua ultima parte, in termini di concreta azione politica. Lo scopo è quello di indurre una riflessione pubblica ricongiunta tra tutti i soggetti che hanno responsabilità eminenti nel Paese. Pubbliche o private che siano.

Nella fattispecie – non suoni esagerato –  si chiede al settore bancario e più in generale al settore economico se sia meglio uno Stato che intervenga ex post su regole date e legittimamente applicate, piuttosto che uno Stato, fortemente ancorato alla propria Costituzione, capace di intervenire ex ante, quindi con un dispiegamento pieno del principio di affidamento nell’ordinamento giuridico e di certezza del diritto per tutti i soggetti che vi operano, senza rischio di personalizzazione. Senza, cioè, che in certe circostanze risulti conveniente, a chi ne abbia interesse e potere di realizzarlo, personalizzare il destinatario delle proprie decisioni che, nella cornice democratica e liberale, dovrebbero essere generali ed astratte. Aggiungo, dovrebbero poste ex ante, in una logica alta dell’intervento della politica sulle cose della Res Publica, eventualmente con leggi di principio (cioè all’interno della logica delle istituzioni come poteri costituiti), a stabilire ( con le linee divisorie della ripartizione della politica nei programmi dei partiti) le modalità di attuazione dei principi della Costituzione (essendo essa la prosecuzione vivente e permanente del potere costituente).

Vero che possono determinarsi condizioni contingenti, per i più svariati motivi, per l’accumulazione di profitti bisognosi di redistribuzione, l’alternativa all’intervento punitivo di carattere tributario consiste nel far discendere dalla Costituzione una legislazione che la attui in tutte le sue parti e sia figlia manifesta dell’assunzione da parte delle istituzioni rappresentative della responsabilità di conduzione dell’ordinamento giuridico nei confronti di tutti i soggetti che vi hanno cittadinanza. Nel caso specifico, se le forze politiche, i partiti,  il Governo avessero espanso con una trasparente proposta al Parlamento legislatore la portata operativa dell’articolo 41 (l’iniziativa economica privata è libera) e soprattutto del secondo e del terzo comma (non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale… La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali) , l’ordinamento positivo conterrebbe una legislazione data ex ante (ma non ricordo neppure una proposta politica di questo tenore, d’ogni provenienza partitica),  per regolare la possibilità teorica dell’accumularsi di extra profitti in capo ai settori della produzione. Oggi nel mirino c’è il sistema bancario e finanziario, come c’è il sistema delle tecnologie elettroniche; domani, per certo, ci sarà il sistema della logistica dei servizi; nello stesso orizzonte temporale, al verificarsi di cambiamenti globali, potrebbero entrarvi settori industriali o dell’economia primaria (perché no?).

In questa luce, a mio avviso, rifulgono, nonostante la capacità di schermatura della politica verso la Costituzione,  risalenti principi posti dalla Corte Costituzionale: “l’articolo 41 attiene alle garanzie necessarie a preservare la libertà di scelta e di svolgimento delle attività economiche proprie dei privati da interventi che la restringano in modo arbitrario… l’individuazione da parte del legislatore della utilità sociale può solo sostanziarsi in valutazioni attinenti alla situazione del mercato… E può dar luogo, quindi, a interventi tali da condizionare in qualche modo le scelte organizzative degli operatori economici purché non siano tali da determinarne la funzionalità  e l’azione dell’attività esercitata sacrificandone le opzioni di fondo…).

Il sistema bancario, e tutti i soggetti attivi nel sistema produttivo, hanno il diritto di non veder menomata la propria libertà di impresa a causa dell’incertezza giuridica proveniente dalla retroattività di norme che, pur sostenibili nel merito, avrebbero dovuto essere anticipate nell’elaborazione e assoggettate, come necessario, al dibattito pubblico antecedente o contemporaneo all’attività legislativa per la definizione in contraddittorio politico democratico delle regole comuni da applicarsi alla questione. Ad essere più chiari, soggetti economici potenzialmente in grado di produrre extra profitti, in un contesto legislativo appropriato, democratico e corrispondente alla Costituzione, avrebbero potuto e dovuto essere associati a soluzioni legali volte alla concretizzazione della funzione sociale della ricchezza prodotta, per verificare, ad esempio, se questa dovesse essere percossa dal fisco, eventualmente in via straordinaria, ovvero dovesse essere mantenuta nella disponibilità di chi l’ha prodotta legittimamente e legalmente per essere impiegata, tuttavia, non nella sua forma di profitto bensì in quella eventualmente stabilita dalla legge di investimento come variabile virtuosa della politica economica del Paese.

Chi agisce – ex post ed insidiando la certezza del diritto e il legittimo affidamento – nei confronti di coloro ai quali sia addebitabile il conseguimento di extra profitti è ogni soggetto istituzionale che sia titolare del potere di proporre leggi e, congiuntamente e disgiuntamente, di approvarle, a voler tacere di una evidente supremazia mediatica.

Si tratta di vedere se la volontà espressa dalle istituzioni, formalmente democratica in quanto corrispondente allo schema formale della Costituzione (investìtura elettorale-rispetto dei ruoli assegnati al Parlamento, al Governo e al Presidente della Repubblica-rispetto della procedura di formazione delle leggi-garanzie costituzionali) sia effettivamente corrispondente al sentire diffuso (probabilmente maggioritario) circa i diritti generalissimi costituiti dalla certezza del diritto e dalla tutela del legittimo affidamento. Ovvero, se quella volontà democratica sia conseguenza di un extra profitto istituzionale. Senza nessuna enfasi, mi corre l’obbligo di insistere sul punto per dire che agli extra profitti economici determinatisi senza violazione delle leggi vigenti possono corrispondere extra profitti politici determinatisi senza violazione delle leggi e della Costituzione.

Interrogativo da sciogliersi in sede di dibattito pubblico, questo, poiché quando i poteri esercitati dalla rappresentanza popolare legittimamente insediatasi secondo le forme stabilite nel patto costituente vengono esercitatri, nello stesso istante si attiva una funzione di controllo permanente, complessiva e diffusa, che non è cancellata dalle forme di controllo istituzionale, a partire da quello concernente il rispetto della divisione dei poteri.

La questione, per chi ha a cuore la democrazia, presenta profili estremi di delicatezza, di lealtà e obbedienza verso le forme istituzionali che essa ha consolidato nel tempo. Tanto ciò è vero che conviene respingere recisamente certe ricostruzioni che installano nella storia e nella cronaca principi e valori che al contrario hanno una dimensione che sfugge al tempo,  che è per definizione permanente. Semmai, il loro esame critico in un certo momento della storia va ancorato ad una sorta di obbligazione morale consistente nella dichiarazione di consapevolezza del loro ruolo proprio al cospetto  della storia.

Certo le forze politiche che conosciamo non sono un dato che deve valere per l’eternità; ma non possiamo neppure pensare che esse possano sparire da un giorno all’altro. Se ciò accadesse, probabilmente si tratterebbe di una colossale operazione camaleontica, di puro trasformismo, in base alla quale ci troveremo di fronte a quanto di più vecchio vi era nei precedenti partiti (nella vigenza del precedente sistema politico), con una etichetta nuova. La strada è un’altra, quella del rinnovamento dei partiti, radicale e profondo, fatto a viso scoperto, in modo trasparente, sotto il controllo dell’opinione pubblica, che deve veder cambiare non tanto e solo le facce, ma i metodi d’azione, le scelte, le selezioni dei nuovi gruppi dirigenti, che devono essere democratiche e cristalline, in modo che non si possa dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ho voluto sottolineare questo punto perché sono profondamente convinta che la nostra opera di riforma istituzionale, per riuscire davvero, debba essere accompagnata dalla riforma del sistema politico, dalla rigenerazione dei partiti politici”:   Attraverso un passaggio del discorso pronunciato dal Presidente della Camera, Onorevole Iotti, l’1 dicembre 1992, nel corso di una seduta dedicata all’esame del procedimento di approvazione della nuova Costituzione, delle funzioni della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali e della disciplina del procedimento di revisione costituzionale, affermo che nell’ordinamento democratico del paese i partiti sono detentori, ingiustamente, rispetto ai valori della Costituzione, di extra profitti, derivanti non già da rotture legali dell’ordinamento, bensì da contingenze di fatto accumulatesi a causa del cattivo funzionamento dei meccanismi di controllo della democrazia sostanziale. E, per non incorrere in emozioni distorsive derivanti dalla situazione attuale, motivo questo giudizio sul ruolo dei partiti come detentori di extra profitti non sindacabili, dal momento che essi stessi dovrebbero rimuoverne le cause, motivo, appunto, con spunti tratti dal pensiero di Sergio Cotta come l’indebolita dialettica tra Parlamento ed esecutivo, l’assenza di una partecipazione plurale alla produzione del diritto per sventare le minacce della società tecnologica, con la creazione di una legislazione di portata generale sulla base di quanto è necessario, all’atto dell’approvazione della legge, a contenere i casi concreti senza che siano oggetto né della sua amministrativizzazione, né di regolamenti di conto tra le forze sociali. Insomma, la riforma del partito politico, auspicata autorevolmente in tanti contesti, dovrebbe riportare le istituzioni ad essere “amate”e non disertate dal corpo sociale, per esser loro riconosciuta una condivisa funzione di mediazione degli interessi all’interno della cornice dei diritti. Che oggi si possa dire che i partiti e le istituzioni siano da considerarsi mediatori tra potere e società civile appare del tutto improbabile!

Veniamo da un tempo, prolungato, lo dico da autentico sostenitore dell’articolo 49 della Costituzione, nel quale si sono avverate preoccupazioni permanenti dei migliori pensatori della storia dell’umanità, a mio avviso ben condensate nel tentativo fatto, in Assemblea Nazionale francese, da Tocqueville. Denunciava il fatto che sostituendo l’interesse particolare a quello generale, le passioni individuali alle passioni comuni si minava la credibilità dei partiti fino a distruggerli. E poneva un interrogativo pesante come un fardello a valere in ogni democrazia: “pensate forse che una società libera possa vivere senza partiti?”. Auspicata e attesa una risposta negativa corale, non resta soddisfatta un’altra domanda, più ravvicinata nel tempo: si può pensare che una società libera possa sostenere, pur nel permanere del ruolo formale dei partiti, il consolidamento di una “politica sotterranea” (le cui manifestazioni sono state colte e isolate dalla London School of Economics), da rintracciare in Italia nella “diserzione elettorale”?

Capisco la fatica di ricercare le cause dell’attenuazione della credibilità democratica del Paese, cui non giova l’assenza di dibattito aperto e pubblico in Parlamento. Quella fatica, che condivido, in parte si scioglie nel pensiero di Tocqueville, che, altresì, condivido: “… Lo spirito in questo paese, attaccato nel suo stesso principio, è minacciato di distruzione; ne risulta che al posto delle opinioni che possono servire da solida base sia a una opposizione sia a un governo, si trova soltanto una collezione di piccoli interessi particolari, mobili e passeggeri, che non possono servire da base ad alcuno, né al governo, né all’opposizione, e che abbandonano necessariamente la società tutta e il governo che la dirige a una mobilità perpetua da cui non potrà scaturire altro che l’anarchia e la rovina per tutti”. Mille esempi si affollano davanti a noi tutti solo a scorrere la legislazione per come è venuta formandosi sotto i nostri occhi. In ogni piegatura che non regga ad un oggettivo esame di coerenza della legge si scorgono tracce di extra profitto dei partiti nella forma di vantaggi ingiustificati o di punizioni, anch’esse ingiustificate, verso questa  o quella componente sociale, con una caratteristica comune consistente nella mancata indicazione ex ante, circostanziata al fine di integrare un decente livello di assunzione di responsabilità (accountability), in termini di traduzione legislativa e di fattibilità.

Per questo molta dottrina si è spinta a denunciare il tramonto del ruolo delle elezioni, magari per sostituirlo col ricorso sistematico al sorteggio (come avviene nel dibattito ciclicamente ricorrente nel nostro ordinamento, orribilmente, per riparare il CSM dai guasti di una opzione elettiva recata dalla legge che ha dato spazio alla formazione di extra profitti delle correnti della magistratura). Verosimile che le dottrine spesso non lascino tracce nella società (ma non per questo debbono essere vilipese, come avviene da parte dei partitocrati che rinfacciano loro la mancanza di un bagno elettorale), esse, alcune, si sono spinte  così in là da ricercare, per le alternative all’investitura elettiva,  un radicamento storico-sociale-morale negli anfratti della storia (traendolo da chi l’ha esaminata in profondità, Sintomer, per esempio, nella sua “breve storia della sperimentazione democratica. Sorteggio e politica da Atene ai giorni nostri” ) per impressionarci, ricordandoci che Ferdinando II di Spagna avrebbe regalato all’umanità la sua esperienza circa la superiorità del sorteggio sull’elezione dal momento che nei Paesi e nelle città in cui vi si fa ricorso sono favoriti “una vita buona, un’amministrazione sana” e i cittadini “sono più uniti, più pacifici e più distaccati dalle passioni”.

Se ne conoscono di re Ferdinandi, in giro nella democrazia odierna, stanchi della sua asserita incapacità di dare stabilità, serenità e futuro eppure indotti in errore nell’attribuzione di quella responsabilità alle istituzioni anziché ai partiti. Poiché in questi ultimi risiede la matrice della partecipazione democratica! Allora, dichiaro lo scopo della prospettazione di una via nuova della politica, delineandone la modalità di attuazione diversamente da Tocqueville (“Non farò dunque alcuna morale al ministero; mi limiterò a pregare la Camera di cercare, lo ripeto, se esista qualche mezzo legislativo che possa apportare dei rimedi al funesto stato dei costumi politici di cui mi lamento”). Non è più il tempo di trattenere con  una camicia di forza costituita (benchè legittima)  il potere deflagrante della democrazia costituente come disegnata dalla Costituzione. Perché non deve avverarsi il monito di Tocqueville per cui “ogni governo che semina vizi , prima o poi raccoglie rivoluzioni”.

Tra i tanti vizi, ne estraggo uno di stretta attualità – presidenzialismo-premierato – per esaminarlo in una prospettiva coerente con la presente proposta politica.

Mediante una proposta di legge di origine governativa, si rinnova, in questo mese di novembre 2023, il dibattito circa le scorciatoie per assestare un nuovo colpo alla Costituzione.

Il Governo, per voce della Presidente del Consiglio, la sostiene  affermando che il popolo (sbandierato a destra e a manca in ossequio ad  un’obbligazione d’uso di tipo linguistico) la vuole. Il popolo (cui continua ad appartenere la funzione costituente originaria nella forma di una sovranità esercitata nei limiti della Costituzione) consultato su una massiccia manomissione costituzionale, quella nota come riforma Renzi, orsono sette anni fa,  l’ha respinta.

Per quanto difficile da chiarire, costituisce dovere civico offrire una chiave di lettura piana a cittadini e cittadine del nostro Paese, tale da alleggerire la comunicazione di quel molto che appartiene alla propaganda nella sua funzione peggiore. Si deve dire, ed insistere sul punto, che legge di revisione della Costituzione e legge costituzionale che derivino da una proposta dei poteri costituiti (Parlamento, Governo proponente) divengono attribuibili alla sovranità popolare costituzionale secondo due modalità; A) quando, al termine di un procedimento rafforzato, la/le proposte di riforma siano approvate da maggioranze di due terzi dei componenti delle due Camere; B) quando approvate a maggioranza assoluta esse siano sottoposte a referendum popolare e approvate dalla maggioranza dei voti validi. In questo modo  e a queste condizioni, i poteri costituiti divengono portavoce costituenti; perché la sovranità popolare si è espressa direttamente, ovvero è stata correttamente interpretata da massicce maggioranze popolari. Allo stato, non c’è una proposta di riforma costituzionale derivante da una certificata mobilitazione popolare che attribuisca al presidenzialismo/premierato un ruolo essenziale per correggere la crisi di credibilità delle istituzioni democratiche. Al contrario esiste una crisi di legittimazione dei partiti, assistiti nella loro investitura  da una partecipazione elettorale minoritaria. Sicchè i partiti, tutti, sfruttando gli extra profitti derivati dalla crisi generale del sistema, quelli della maggioranza odierna col presidenzialismo/premierato, non si limitano più ad una narrazione della crisi ma agiscono per renderla credibile emotivamente ed impiegarla. Ed in molti, nel Paese, pur detestandoli larghissimamente, si accostano al loro trono democratico ben dissimulato eppur chiaramente corrispondente ad un impianto monopolistico/oligopolistico.

Perché, fra l’altro, dobbiamo rinforzare il premier? E’ evidente: perché deve ridurre alla ragione la sua maggioranza. Il Presidente del Consiglio che l’art.95 dota dei necessari poteri di direzione della politica generale del Governo ha bisogno di investitura diretta, elettiva! Per regolare e contenere l’eventuale frammentazione partitica (che ne insidia la continuità di ruolo), scarica sulla Costituzione (chiedendo di modificarla) una responsabilità che essa Costituzione non ha, al fine unico di ricevere una dotazione di poteri impropri (in ambito istituzionale) per ridurre alla ragione le forze della propria maggioranza! (Davvero è singolare che i partiti minori delle coalizioni che sono figlie di leggi elettorali strampalate e antidemocratiche accettino di essere incatenati per cinque anni al carro partitico del Presidente del Consiglio).

Ai buoni cittadini cui si rivolge Tocqueville bisogna gridare che Presidente del Consiglio e Governi sono afflitti da una sola fragilità (che li accomuna), quella loro inferta dai partiti della loro coalizione.

Il governo (francese), secondo me, possiede tutti i poteri cui può aspirare un governo…”: egualmente il Governo italiano, dall’approvazione della Costituzione in poi. Allora, i partiti detentori di extra profitti, responsabili della vita dei governi (attraverso la loro proiezione di gruppi parlamentari ed il voto di fiducia), forti dei poteri che derivano dalla loro posizione di soggetti costituzionali irresponsabili se non politicamente, per nascondere il loro ruolo letteralmente imboniscono l’opinione pubblica assegnando la colpa del mal funzionamento dello Stato (e della Repubblica) all’assetto istituzionale. Cambiamo le istituzioni è la tiritera che classifica il ruolo dei partiti quando vi sia crisi. Mai che nella contemporaneità del loro agire si riesca ad inchiodarli alla responsabilità propria, posto che fanno parte di una galassia unitaria nella quale è venuto meno perfino il principio della reciprocità dei controlli tra maggioranza e minoranze. La loro responsabilità emerge in genere nell’analisi storica, ma allora è tardi per l’interesse generale di un Paese, o dei rapporti tra Paesi, o in seno alle Organizzazioni Internazionali. Propongo di riflettere sul seguente passaggio (da Leon Blum): “ …ou le passage du pouvoir presidentiel au pouvoir personnel est un des perils connus et prouves qui menacent la democratie, l’attribution du pouvoir executif a un homme (une femme) par le suffrage universel s’appelle le plebiscite”. In Italia, oggi, con un Parlamento indifeso e vilipeso dai suoi stessi protagonisti (che dolore, al netto della contestualizzazione storica,  non sentir più alzarsi una voce a dire “…ma non bisogna già considerare il potere esecutivo come un nemico della libertà nazionale. Io non vedo che vantaggi nell’ammissione dei Ministri con voce consultiva, imperocchè la deliberativa non appartiene che a coloro che la ricevettero dai loro committenti  (dagli elettori)”) l’investitura plebiscitaria del Presidente del Consiglio si aggiunge e completa un quadro sintomatologico che denuncia la crisi della democrazia.. A non voler dire, da parte di chi propone il presidenzialismo/premierato, come il Presidente eletto (per governare il Paese con fermezza e in ispregio dell’accelerazione in corso nell’era della trasformazione digitale che implica/contiene le ragioni fisiologiche giustificative del cambiamento, anche nella direzione politica del Paese) sia dotato di poteri legittimi di governo della riottosità dei partiti della sua maggioranza: con l’eccezione del ricorso al plebiscitarismo permanente!

Detto  nei suoi termini essenziali, il problema presenta due possibili esiti (anche se un problema , in genere, si presta ad una ed una sola soluzione, quella che soddisfa tutte le premesse).

Il primo è quello di rassegnarsi alla banalità dei gesti più o meno vistosi di consunzione della democrazia con annesso abbandono dei valori costituzionali e, anche in buona fede, continuare ad accettare che di tanto in tanto, per qualche fausta congiunzione astrale, l’offerta dei partiti esistenti coincida con qualche frammento di bene comune.  Insomma legittimare gli extra profitti dei partiti.

Il secondo è quello di riprendere il filo indistruttibile della continuità democratica costituente interno alla sovranità popolare (purchè questa sia invocata e realizzata con la chiara rappresentazione di “workable forms of popular sovbereignty” nel quadro democratico costituzionale), permanente nella sua durata, non intaccato nel tempo dell’esercizio della buona politica da parte dei poteri costituiti, tale e capace di mostrare alla politica dei partiti, dal di fuori, che il tempo della rottura sostanziale della legalità costituzionale è concluso. E’ quello di pretendere che il sistema dei partiti, nelle istituzioni deputate a farlo, cioè nelle Camere, modifichi sè stesso secondo lo spirito dell’art. 49 della Costituzione come conseguenza di una percezione consapevole che la sovranità popolare contiene il principio di concepirsi ed accettarsi in un quadro pluralista senza nessuna opzione ad excludendum alios, beninteso dentro i limiti della Costituzione.

E’ assai arduo ed impervio il cammino per chi senta la necessità di uno scarto della storia che dia il via ad un percorso di trasformazione. Un conto è pensarlo e commentarlo, altro indicare le azioni necessarie, alcune delle quali in forte discontinuità con il presente.

Per ciò che ho detto, appare evidente che la serie stucchevole e irridente delle riforme portate a termine nell’ultimo trentennio (alcune delle quali preannunziate nel decennio precedente) hanno letteralmente sottratto stabilità al sistema Paese dopo averle presentate, con grande dispiego di mezzi di comunicazione pubblici e privati, come la soluzione ottimale ai fini proprio della stabilità. La mente corre, ovviamente, al susseguirsi di modifiche delle leggi elettorali e alla loro pericolosa collocazione nei paraggi dell’incostituzionalità.

Vero che la domanda di stabilità corrisponde alla volontà popolare, quando la risposta sia inefficace occorre indagarne la causa.

La causa è rappresentata dall’impossessamento dei partiti, quelli esistenti in Parlamento, ovviamente in grado di farsi sorreggere da dottrina, comunicazione e portatori di interessi settoriali, del controllo di tutti gli strumenti della trasformazione. Condizione di vantaggio indiscutibile se non fosse ben presente che la Storia ha insegnato che c’è sempre un termine finale, quello del redde rationem.

Due sono gli effetti: che questi partiti non hanno voluto attuare la Costituzione; che questi partiti non possono essere più considerati destinatari della domanda di attuazione della Costituzione. Continueranno a difendere il confine dei loro poteri (extra profitti) inchiodando chi operi per la trasformazione nelle sabbie mobili del prepolitico.

Come uscirne?

Ecco una sequenza:

1) occorre partire dal primato della sovranità popolare e dell’appartenenza ad essa della Funzione di Indirizzo Politico (“… alla quale, in virtù del suo più immediato collegamento con la costituzione, spetta il compito di promuovere la progressiva realizzazione degli imperativi che ne  provengono”  (Mortati);

2) La sovranità popolare appartiene al corpo elettorale che esercita la funzione di indirizzo politico non solo quando decide sulle proposte di referendum abrogativo e confermativo ma anche quando in forma libera  – ma rappresentativa – chiede l’applicazione della Costituzione. Nella fattispecie chiede l’attuazione dell’art. 49.

3) Per forma libera s’intende che la manifestazione di esercizio della funzione di indirizzo da parte del corpo elettorale non implica la formazione di un partito, che anzi la esclude essendo propedeutica (e di servizio) alla nuova regolamentazione dei partiti (tutti) nella cornice della democrazia parlamentare.

4) La rappresentatività è data dal numero di coloro che chiederanno la riforma dell’art.49. Ascrivo, ardimentosamente, il corpo elettorale che si organizza autonomamente dai partiti esistenti per attuare l’art. 49 tra le “Istituzioni dello spirito” (Zagrebelsky). Come queste si formino, Zagrebelsky lo apprende da Bianchi (Comunità monastica di Bose). Quando un promotore/fondatore incontra persone “abitate dagli stessi sentimenti e attirate dalla stessa ricerca” e tra loro nasce “un’intesa spontanea” (senza tessere, tesseramenti, signori delle tessere ), allora si costituisce un gruppo che si riunisce per un tempo limitato e con un fine ben delineato “in vista di un’attività per la quale i gruppi sociali già esistenti sono da loro percepiti come inadeguati”.

 5) L’intesa spontanea convergerà su una proposta di regolamentazione dei partiti che dovrà avere la seguente fisionomia: A) il partito politico è un soggetto giuridico che opera con la personalità giuridica di diritto privato, senza scopo di lucro, con la finalità di attuare il diritto dei cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. B) Il partito politico si doterà di un modello organizzativo, secondo lo schema adattato del D.Lgs. 231/2001 e ciascun dirigente avrà responsabilità penale amministrativa quando un reato (contenuto nel catalogo dei reati che la legge recherà) sia commesso a vantaggio e per interesse del partito politico. Il modello organizzativo (corredato di un appropriato codice di condotta/codice etico) conterrà le modalità di adesione/partecipazione  alle attività del partito. Il partito si doterà di un organismo di vigilanza per il buon funzionamento del modello organizzativo. C) Il partito politico proporrà i propri programmi elettorali e di definizione di linea, in piena libertà d’iniziativa politica, indicando obbligatoriamente la copertura finanziaria, l’attuabilità amministrativa, gli effetti sociali perseguiti e la copertura costituzionale, con un obbligo di “parler vrai” (Rosanvallon) che tolga di mezzo dal tavolo dell’indispensabile confronto democratico dei principi e delle loro declinazioni operative ogni forma di campagna elettorale permanente fondata sulla menzogna, (con tanto di giustiziabilità delle violazioni davanti alla Corte Costituzionale). Un parler vrai, si abbia il coraggio di affermarlo, capace di restaurare “le sentiment d’une maitrise d’ordre moral sur le choses”.D) Le regole democratiche per ogni decisione del partito saranno identiche a quelle stabilite nei Regolamenti parlamentari. E) Il finanziamento del partito politico sarà pubblico e privato. F) Ciascun partito elaborerà in autonomia, assumendone le responsabilità politiche e civilistiche (per i casi di produzione di danno colposo e doloso) la disciplina che determinerà l’obbligo di fedeltà al patto costitutivo delle maggioranze governative. G) La responsabilità dei dirigenti del partito politico, nonché di chiunque sia chiamato ad una collaborazione, è quella stabilita dalla legge per i magistrati.

Quando il corpo elettorale si sarà espresso massicciamente per l’attuazione della Costituzione con riguardo all’art.49,  i partiti ne dovranno prendere atto non potendo resistere democraticamente ad una perentoria manifestazione di volontà della sovranità popolare. Approvata la legge sui partiti, in attuazione della volontà costituente espressa, il Parlamento, sulla base di un indirizzo da collegarsi all’attuazione della legge sui partiti, dovrà varare la riforma elettorale su base proporzionale, con uno sbarramento al 5%, senza premi di maggioranza né altri meccanismi premiali.

Il Presidente della Repubblica decreterà lo scioglimento delle Camere al fine di consentire ai partiti che si saranno formati e rispetteranno la legge che li regola di presentarsi al corpo elettorale nella luce di un rinnovato patto di lealtà costituzionale in linea con la connotazione di democrazia permanente del nostro ordinamento.

Alessandro Diotallevi

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