Il 31 marzo1953 veniva approvata dal Parlamento Italiano la Legge n° 148, che modificava la legge elettorale del 1946, introducendo un premio di maggioranza, consistente nell’attribuzione del 65 % dei seggi, alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse preso il 50 % del voti validi.
La Legge fu abrogata il 31 luglio 1954 n° 615. La legge passò nei mass-media e nell’opinione pubblica con l’epiteto di “legge truffa”.
Nel 2024 si svolgono le elezioni in Gran Bretagna e in Francia con due sistemi diversi, la prima con un turno elettorale, la seconda con un primo turno e i ballottaggi, ma con il sistema dei collegi uninominali.
I RISULTATI
In Gran Bretagna:
il Partito Laburista consegue il 37,1 % e 411 seggi
I Conservatori il 23,7 % e 121 seggi
I Liberali il 12,2 % e 72 seggi
Reforme UK Farage il 14,3 % e 5 seggi
Green il 6,4 % e 3 seggi
Scottish il 2,5 % e 9 seggi
In Francia 1° turno 2° turno:
RN il 33,2 % 37,1 % 142 seggi
NFP il 28.2 % 25.8 % 180 seggi
Ensamble il 21,3 % 24.5 % 159 seggi
Republicains il 6,6 % 5,4 % 39 seggi
L’obiettivo fondamentale di una democrazia deve essere quello di rappresentare la volontà popolare nelle Istituzioni democratiche e in primo luogo in Parlamento.
Per tali ragioni, i Costituenti italiani immaginarono un sistema proporzionale e la legge adottata per eleggere l’Assemblea Costituente e per la prima elezione parlamentare fu proporzionale puro, senza alcuna limitazione, tanto da eleggere in Parlamento anche la più piccola rappresentanza minoritaria.
Era una legge perfetta, che dava al Parlamento la rappresentanza “reale” della volontà popolare.
Eletto il primo Parlamento si pose il problema della “stabilità governativa”, in quanto dal 1945 al 1954 De Gasperi costituì otto Governi e, quindi, nel 1953 fu approvata la legge con il premio di maggioranza, che non fu mai applicata in quanto alle elezioni del 1953 la coalizione composta da DC, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Liberale Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Südtiroler Volkspartei, Partito Sardo d’Azione raggiunse solo il 49,8 % dei suffragio. Pertanto, il dibattito sulla “stabilità governativa” continuò, ma non si trovò alcuna soluzione non perché non ce ne fossero, ma perché la fedeltà alla rappresentanza popolare nel Parlamento fu considerata prioritaria difronte a tutti gli altri problemi.
In effetti, la DC trovò la “stabilità governativa” attraverso i “Programmi di governo”, che caratterizzarono i periodi politici che si sono succeduti durante tutta la sua azione politica, dal 1945 al 1993. L’attuazione della strategia di governo, attraverso il Programma, si confermava al mutare dei governi e il mutare di questi garantiva anche un turnover della compagine governativa con l’avvicendamento nei ruoli ministro e di sottosegretario di deputati e senatori, assicurando un equilibrio distributivo del potere di rappresentanza governativa anche tra i territori dello Stato.
La dialettica correntizia non minava mai la rappresentatività di ogni componente e infatti tutte le componenti erano rappresentate nelle liste elettorali e nei governi. Era una “stabilità strategica di disegno politico”, che non aveva bisogno della garanzia della permanenza degli stessi uomini nei posti di governo; vi era la stabilità del Progetto di ricostruzione del Paese, poi della sua industrializzazione, del suo risanamento economico, della strategia delle alleanze, prima con il centrismo, poi con il centro sinistra e successivamente con il rapporto con i Comunisti; tali tappe furono sempre seguite e attuate, secondo logiche politiche comunicate democraticamente all’elettorato e confermate dai suffragi ottenuti per tanto tempo.
Era un’altra stagione politica, vi era un’altra morale, vi erano altri uomini, che associavano alla responsabilità la competenza e la preparazione, soprattutto il “senso del dovere” di rispondere ai propri elettori, che conoscevano personalmente, avendo chiesto e raccolto i voti, andando anche nelle piazze e nelle case.
L’escamotage elettorale per garantire la “stabilità democratica” non serviva, perché i partiti tutti rispondevano al proprio elettorato sulla base dei programmi che elaboravano e proponevano.
L’”operazione di Mani Pulite” non fu una azione giudiziaria, ma una operazione politica perché il Partito comunista, nonostante il tentativo di coinvolgimento nei programmi politici, mantenendo una cultura radicale e di parte, a differenza della DC che era stata da sempre partito “interclassista” come il PPI, non riusciva a ottenere elettoralmente la maggioranza, anche relativa, dei consensi e quindi immaginò di attuare una operazione moralistica, indicando le malversazioni che pure si verificavano nei partiti di governo – e anche nel PCI – ad opera di alcuni esponenti politici. Pochi uomini rispetto allo stragrande numero di iscritti alla DC e agli altri partiti, per delegittimare i partiti di governo attraverso un nucleo di sostituti procuratori politicizzati.
La delegittimazione dei partiti di governo non corrispose alla legittimazione del Partito comunista, tanto che bastò la discesa in campo di Berlusconi per sconfiggere la “gioiosa macchina da guerra” di Occhietto. A quel punto, considerato che, con la legge elettorale in vigore, non si riusciva ad ottenere la maggioranza dei consensi, nemmeno delegittimando i partiti di governo, bisognava inventare qualcos‘altro; prima si passò dalle quattro preferenze per l’elezione della Camera dei Deputati alla preferenza unica e poi alla legge del 1994, che mise nelle mani dei partiti la scelta certo dei candidati, ma, di fatto degli eletti, con un voto che non apprezzava la persona ma il partito di appartenenza.
Da quella legge derivò la deriva delle successive, fino ad arrivare sostanzialmente alla nomina degli eletti attraverso le liste di partito, ma violando completamente il fattore fondamentale della rappresentanza popolare, perché il Parlamento non rappresenta più gli elettori nella proporzione delle espressioni delle volontà, ma il voto è il risultato di un artificio.
Nonostante la deriva immorale che ha violentato la democrazia rappresentativa, la “stabilità democratica” o la governabilità, come usualmente viene invocata, non si è riusciti ad avere. In definitiva siamo arrivati al governo delle “minoranze più grandi”, ma non delle maggioranze, perché l’elettorato si è gradualmente disimpegno. L’astensionismo, alcune volte, è oltre il 50 % e quindi la rappresentanza, calcolata sui voti espressi, in riferimento a tutto il corpo elettorale, non è altro che una minoranza.
A questo punto bisogna verificare se il valore della rappresentanza effettiva della volontà popolare debba continuare ad essere perseguito o debba prevalere il bisogno della “governabilità”, a prescindere dal volere del popolo.
L’espressione “a prescindere” è d’uopo non soltanto in Italia, ma anche negli altri Paesi come GB e Francia, perché con il 33.7 % dei voti in GB i Laburisti avrebbero diritto a 219 deputati e non a 411, i Conservatori con il 23,7 % dei voti avrebbero diritto a 154 deputati e non 121 e così via; in Francia il RN con il 37,1 % dei voti avrebbe diritto a 214 deputati su 577 e non a 142, il NFP con il 25,8 % dei voti avrebbe diritto a 149 deputati e non a 180, Ensemble con il 24,5 % avrebbe diritto a 141 deputati e non a 159 e Republicains con il 5.4 % avrebbe diritto a 25 deputati e non a 39; il conteggio in Italia è noto.
Penso che non si possa prescindere dal volere del popolo se si vuole mantenere la democrazia. Oppure, non si può parlare di democrazia, ma di autarchia dei partiti, che differisce dai regimi autarchici presenti nel mondo solo perché non ci sono gli oppositori in carcere; infatti, gli oppositori vengono pubblicamente delegittimati e indicati come “nemici” del sistema in atto, che nei fatti non è democratico.
Un’ulteriore considerazione dev’essere fatta in relazione alla attuale capacità di governo degli Stati, in presenza di una globalizzazione trentennale, che ha fallito gli obiettivi annunciati (ma forse non erano quelli veri) e ha creato una serie di sovrastrutture alle quali gli Stati aderenti devono sottoporsi, se intendono evitare le sanzioni per il mancato rispetto degli accordi.
In definitiva, i programmi di governo rispondono ad una regolamentazione sovranazionale, che non ha nessun controllo democratico. Ci si lamenta frequentemente dell’UE per le scelte che essa impone, ma almeno nell’UE tanto il Consiglio che il Parlamento sono organi democratici di controllo della Commissione; in ambito internazionale questo non è previsto, né i G 7 o i G 20 o il WTO, l’OMS o altro hanno strutture democratiche di verifica, perché questi Istituti possono intraprendere e stipulare protocolli intergovernativi e non altro.
Se questo è vero incontrovertibilmente, la invocata governabilità diventa solo nominale, perché i governi rispettano gli accordi internazionali e non possono fare altrimenti.
In definitiva, la democrazia secondo l’etimo greco non esiste più e con le leggi elettorali si tende a farne una rappresentazione da commedia se non da farsa, perché gli elettori non arrivano a comprendere le scelte che si fanno, anche perché l’informazione globalizzata orienta a prescindere dalla bontà delle opzioni.
La governabilità invocata è una razionalizzazione del sistema, che individua nell’esercizio democratico una sovrastruttura frenante l’efficienza del sistema stesso, che vuole eliminare i “tempi morti” dei dibattiti, le procedure di approvazione, considerate lunghe, le verifiche nelle attuazioni delle decisioni.
Tutto deve procedere come se fosse un sistema produttivo, con la efficienza dei risultati, ma senza il controllo di qualità e la relativa certificazione. Se ancora non siamo arrivati a questo stadio, questo comunque è l’obiettivo: il governo efficiente con il Presidente del Consiglio che è come un AD, anche se questo significherà la compressione dei sistemi democratici.
L’insofferenza popolare rispetto a tale sistema si manifesta in tanti modi: molte volte con l’astensionismo dal voto, altre volte con le proteste popolari (le rivolte delle banlieue in Francia, i colpi di stato in alcuni Paesi africani, i movimenti negazionisti come quelli della “cancel culture”, la pretesa legittimazione di abusi, malversazioni e violenze come espressione del libero pensiero e tanto altro, non facendo differenza tra la protesta legittima e quella illecita e quindi illegittima.
Se questa è la patologia dei sistemi attuali, sarà opportuno riflettere sui sistemi cosiddetti “presidenziali” e sulla proposta di legge sul “presidenzialismo” dell’attuale maggioranza di governo.
Se il voto popolare ha un valore nel sistema proporzionale, lo stesso valore ha nel sistema maggioritario o nel sistema presidenziale o semi presidenziale, purché non si introducano dei correttivi che alla fine distorcono il risultato effettivo (nelle elezioni americane del 2016 Trump prese il 46,1 % dei voti e 62.984.828 voti elettorali, mentre Hilary Clinton ebbe il 48,2 % e 65.853.514 voti elettorali, ma il sistema dei delegati consegnò a Trump 304 delegati contro i 227 della Clinton, quindi vinse Trump).
Pertanto, in un sistema proporzionale puro, tanto nel sistema parlamentare, che in quello presidenziale o semipresidenziale il valore del voto è identico e definisce la democraticità del sistema; né si può giustificare l’introduzione di “correttivi”, che non hanno nessun riferimento a condizioni diverse del corpo elettorale: i cittadini sono tutti uguali, giovani e anziani, quelli del nord e quelli del sud, senza distinzione di pelle bianca, scura, gialla o bruna, il voto di uno è uguale al voto dell’altro.
Un’ultima considerazione va fatta comparando i due sistemi; parlamentare e presidenziale. Nel sistema presidenziale un partito o una coalizione di partiti si sottopongono alla valutazione dell’elettorato con un programma definito; chi prevale nel voto popolare ha il diritto di governare; tale sistema non tiene conto di un elemento fondamentale che attiene alla legittimazione del voto, che è attribuita al singolo parlamentare e non al partito o alla coalizione di partiti che si presentano alle elezioni; quindi il singolo parlamentare risponde al proprio elettorato, perché viene eletto “senza vincolo di mandato”, come è giusto che sia, perché egli non “appartiene” al partito che lo ha candidato, ma al popolo che lo ha eletto; infatti la scelta politica nelle aule parlamentari del singolo eletto è assolutamente “libera” e non può essere censurata se si manifesta in difformità alla scelta del partito che lo ha candidato. In tale caso la cosiddetta “governabilità” che il presidenzialismo assicurerebbe diventa nominale e non sostanziale.
Nel sistema parlamentare proporzionale, che rispetta il principio che il candidato venga eletto “senza vincolo di mandato”, vi è il vantaggio che le aggregazioni che si fanno, avvengono in Parlamento e la dialettica e il confronto sono efficaci per ricercare la sintesi delle posizioni per la creazione di una maggioranza che sostenga il governo. Non ci sono blocchi chiusi che radicalizzano le posizioni pur di contrapporsi e raccogliere il consenso più estremo; si verificano invece convergenze di posizioni in una prassi che si può consolidare tra partiti diversi, che rappresentano opinioni diverse nel corpo elettorale.
La radicalizzazione viene emarginata e resa ininfluente, mentre prende corpo un programma il più possibile ampio che si pone l’obiettivo di soddisfare i bisogni più urgenti dei ceti popolari.
In cinquant’anni il quadripartito e il pentapartito hanno portato il nostro Paese ai livelli di benessere attuale; negli ultimi trent’anni si è bloccato l’”ascensore sociale” e i figli stanno peggio dei padri, che non hanno potuto assicurare alle generazioni future le stesse condizioni di benessere che i reduci di guerra e i loro figli hanno assicurato fino agli anni ’90.
Una considerazione finale penso che sia indispensabile: vogliamo una democrazia reale o perseguiamo un sistema autarchico sotto le spoglie di una democrazia formale e nominale?
Qualcuno disse, forse Churchill, che una pessima democrazia è sempre meglio di qualsiasi altro sistema di governo. Io condivido.
Vitaliano Gemelli