“Sfracelli d’Italia” – come ha affermato Giancarlo Infante, nel suo articolo di ieri (CLICCA QUI) – brandelli e coriandoli di un Paese sfortunato, preda di una classe dirigente affamata di potere, quanto, di fatto, priva di una vera, autentica cultura politica, robusta quel tanto che ci vuole per sostenere l’urto delle trasformazioni che ci attraversano.
Una cultura che immagina di poter governare oggi rievocando criteri, categorie di lettura del nostro tempo, posture ideali già irrevocabilmente condannate dalla storia oppure riandando a mai sopite suggestioni “separatiste”. A riprova del fatto che ogni forza politica, per quante evoluzioni o aggiustamenti più o meno opportunistici possa adottare nel volgere del tempo, ben difficilmente può affrancarsi dall’ idea originaria da cui nasce, dalla cifra che la identifica.
Si sapeva di Salvini e di Calderoli, interprete della continuità “bossiana” della Lega, padre del “Porcellum”, testimone delle prime ore, del sogno separatista che oggi viene riproposto in forme apparentemente attenuate, in effetti perfino più slabbrate e laceranti.
Non basta limitarsi alla lettura tecnico-istituzionale dell’ “autonomia differenziata”, dei danni e dell’involuzione democratica che reca con sé. Bisogna essere attenti – lo dovrebbero fare soprattutto i cattolici che abbondantemente votano Lega – al presupposto “antropologico” da cui trae spunto, da quel disprezzo volgare per il Meridione e per gli italiani che lo abitano, che ha rappresentato un tratto distintivo della prima Lega, rinfoderato, chiaramente, solo per l’opportunità tattica di voler accedere ad un più vasto bacino elettorale. Ma il sentimento, evidentemente, non muta, la discriminazione che veniva rappresentata con intonazioni prossime al razzismo, continua a soffiare nelle vele, per quanto oggi afflosciate, della Lega.
Quel che sorprende e francamente non si capisce è l’accondiscendenza di Giorgia Meloni ad un disegno logicamente incompatibile, fino ad essere antitetico, alla sua vocazione “nazionalista”. Senonché bisogna, a questo punto, dedurne, per forza di cose, che anche quest’ ultima – al di là dell’ enfasi con cui viene proposta in nome di una presunta “italianità” – è tributaria dello “slang” populista che la Lega incarna. Infatti, una domanda sopra le altre si impone in un frangente storico in cui le politiche nazionali, in nessun caso, possono liberarsi, con una scrollata di spalle, dalle letture europee ed internazionali che maturano circa i loro indirizzi e dalle conseguenze che da ciò derivano.
Oggettivamente, del resto, l’ accettazione supina, da parte di FdI, della “differenziata”, cioè di un’Italia disarticolata, muta profondamente il senso dell’ improvvisata conversione “euro-atlantica” della Meloni. Quale Italia, in nome di quale compattezza, di quale immagine distintiva, esige e merita rispetto e considerazione nei consessi internazionali, quale apporto può garantire sulla scorta di una solidarietà popolare che da Nord a Sud attesti l’unità, il carattere, il
peso specifico del nostro Paese? Peraltro, se c’è chi evoca il “baratto”, un “do ut des” tra premierato ed autonomia differenziata, un procedere sì in parallelo, ma, di fatto, circospetto, è pur legittimo pensare, piuttosto ad un contratto di reciproca convenienza, ad una studiata complicità. Tale per cui l’ “autonomia differenziata” concorra ed arricchisca quel lavoro di destrutturazione cui pensano i “Fratelli d’ Italia” con l’ attacco alla Costituzione repubblicana, figlia della liberazione dal fascismo e, per contro, il “premierato” perimetri e circoscriva la dissipazione dell’unità del Paese quel tanto che consenta di lasciare, comunque, libero campo alla sua disarticolazione.
Domenico Galbiati