Il nuovo libro di Alberto Mingardi: Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna (Marsilio-Ancora, pp. 358) è un grande affresco su una delle dispute filosofiche-politiche che ha maggiormente impegnato gli studiosi del Novecento: la nozione di giustizia sociale.

In estrema sintesi, la tesi di Mingardi è che Hayek resti alla periferia di quello che definisce “il grande torneo della filosofia politica”: la discussione fra Rawls e Nozick sulla giustizia sociale. Non perché Hayek ne fosse ignaro: cita l’uno e l’altro nel suo Legge, legislazione e libertà, e cona un buona dose di approssimazione cita anche Antonio Rosmini e Luigi Taparelli d’Azeglio, dei quali non coglie il loro riferimento al principio di sussidiarietà connesso alla nozione di giustizia sociale. In realtà, a Hayek interessava qualcosa di diverso, che spesso sfugge anche ad una rispettabile parte dell’intellighezia cattolica, forse poco incline ad una autentica lettura critica e non ideologica dell’opera dell’economista austriaco, premio Nobel nel 1974: rifiutare il concetto di “giustizia sociale” come contraltare alla “great society”, alla “società aperta”, al mondo determinato dalla Rivoluzione industriale: un incidente storico che ha consentito all’umanità di uscire dalla trappola malthusiana. Hayek non è contrario a priori a strumenti di welfare, ma ritiene che non debbano mettere a repentaglio il funzionamento del sistema dei prezzi.

Hayek ci insegna che l’economia non cresce come fa un corpo umano: non si limita ad aumentare di altezza e peso, ma cambia di natura (oggi i nostri figli giocano ai videogames sul telefonino e guardano Netflix: l’una cosa e l’altra erano fantascienza vent’anni fa). Questo flusso di novità è possibile proprio perché l’economia premia con scarso riguardo al merito e al bisogno: ogni tanto remunera straordinariamente chi, semplicemente, si trovava al posto giusto, al momento giusto. Di solito, questo fatto suscita grande irritazione. Quando usciamo dalla nostra stretta cerchia, dal novero (limitato) delle cose che effettivamente conosciamo, la nostra capacità di attribuire in modo coerente “meriti” è risibile. L’economia è un gioco di abilità e di fortuna: e l’esistenza della fortuna è un fatto inevitabile nelle umane vicende. Non solo: dal punto di vista della società, essa è benefica. Se qualcuno si arricchisce solo perché stava al posto giusto al momento giusto, spiega Mingardi, sulla scia di Hayek, è perché dispone di risorse che in quel momento lì servono ad altri. Se il fondatore di Zoom non avesse sviluppato Zoom, riunioni d’affari, attività didattiche e incontri ci sarebbero stati preclusi. È questo, insiste Mingardi, che è socialmente rilevante: la disponibilità di beni e servizi che vengono incontro ai bisogni delle persone.

La libertà che per Hayek più conta, ricorda Mingardi, non è la libertà “nostra”. Egli è un pensatore lontanissimo dall’individualismo solipsistico (la scuola austriaca difende l’individuo agente, ma lo pensa sempre come individuo “sociale”), è persino distante dall’elogio dell’eccentricità che fa John Stuart Mill. Per Hayek, la libertà che conta è la libertà degli altri: la libertà di provare a offrire servizi e beni che, a un certo punto, ci serviranno.

Questa idea del liberalismo è una idea difficile da “vendere”. Per Mingardi, Hayek è “intellettualmente onesto” proprio perché presenta una visione del liberalismo che egli sa essere in profonda contraddizione con gli “istinti innati” delle persone. Istinti innati che odiano il liberalismo e presenti con egual forza nel popolo e nelle élite, nelle masse e negli intellettuali, tra i fascisti e tra i comunisti e tra i populisti di ogni tipo e ideale. Mingardi suggerisce che uno dei fili rossi che davvero legano le opere di Hayek e, in realtà, tutta la storia del liberalismo novecentesco è il tentativo di rispondere alla domanda: perché la società industriale, prospera come nessuna prima, odia i principi che hanno consentito questa sua prosperità?

Flavio Felice

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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