Il tema dell’ impegno politico dei cattolici continua ad essere rilevante, nel dibattito politico italiano, non per la loro incidenza elettorale, dal momento che il loro consenso è di fatto ripartito tra tutte le componenti dell’ arco parlamentare – come ci ha giustamente ricordato ieri, su queste pagine, Giovanni Cominelli (CLICCA QUI) – e non è, quindi, in grado di spostare significativamente l’ equilibrio delle forze in campo. Neppure per le reminiscenze storiche del ruolo che ebbero nella nostra vicenda democratica del secolo scorso. E, in fondo, nemmeno perché da loro ci si possa attendere una qualche radicale riconversione delle fondamentali e storiche coordinate politiche del nostro Paese. Ma, piuttosto, perché potrebbero o dovrebbero, nella misura in cui siano fedeli alla loro visione cristiana della vita, riportare, nel discorso pubblico, un sentimento nuovo di reciproca appartenenza e di solidarietà, una domanda impellente di giustizia, di fratellanza, di uguali opportunità per tutti, di abbattimento di diseguaglianze umilianti, una misura, insieme, di rigore e di pacatezza, di reciproco rispetto nella diversità, in un confronto politico slabbrato e pregiudiziale, costruito sulla reciproca delegittimazione tra le parti.
Non si tratta di evocare la “moderazione”, una sorta di giogo cui si vorrebbero i cattolici perennemente condannati e tanto meno il fatidico “centro”, ma piuttosto di ritrovare una franchezza risoluta e la capacità di andare oltre le consolidate liturgie riformiste, per accedere ad uno sguardo nuovo. Che sia in grado di penetrare le mutazioni imponenti che avanzano incontro a noi, ancora avvolte da una bruma che va via via diradata, per cominciare a delineare i contorni delle sfide cui non possiamo sottrarci. Sempre che intendiamo governare i processi innescati dalla pervasiva innovazione scientifica e tecnologica che ci incalza – anzitutto in campo genetico e neuroscientifico, non ultima l’Intelligenza Artificiale – piuttosto che abbandonarci alla sua china, quasi fosse l’alea di un inenarrabile e soverchiante destino, che si fa da sé e ci sovrasta.
Su queste pagine, da qualche anno a questa parte, si è sostenuto che la politica ha bisogno di una “rifondazione”, anzi, si è detto ripetutamente, di una “rifondazione antropologica”, che riecheggi quel concetto di “trasformazione” che Stefano Zamagni ha proposto come cardine del nostro Manifesto fondativo (CLICCA QUI). Anche qui ci sembra di ravvisare una sintonia con quanto scrive, nell’articolo di cui sopra, Giovanni Cominelli con la profondità di pensiero che lo contraddistingue. In modo particolare, laddove evoca quel concetto di “autopoiesi” che anche a noi sta a cuore.
Concetto centrale per comprendere, ad un tempo, la provocazione cui è esposto il nostro tempo, l’ambizione che è legittimato ad alimentare, la responsabilità, infine, cui non può venir meno, a fronte delle nuove generazioni e per un lungo tratto a venire della storia umana. In un certo senso, oggi l’umanità è restituita a sé stessa, alla consapevolezza di sé che la sua cultura ha fin qui sedimentato ed oggi, in un certo senso, è chiamata a rielaborare da capo.
Al di là degli argini della natura che ne hanno sempre protetto ed inalveato il cammino ed ora non sono più in grado di trattenere la piena. Come un novello Adamo che, posto, ancora una volta, nel giardino dell’ Eden deve decidere se cogliere o meno il frutto dell’ albero della conoscenza. Se vi sia o meno un limite che, anziché tarparne le ali, ne garantisca la ricchezza e l’identità.
“Rifondare” la politica, vuol dire ripensare a fondo quali debbano essere, oggi, le categorie interpretative chiamate a orientarne l’azione. Si tratta di un impegno che non concerne solo i cattolici, nella misura in cui investe quel percorso di “autocomprensione” cui oggi l’ umanità, nel suo complesso, non può sfuggire. Nessuna cultura politica, qualunque sia la sua ascendenza originaria, a meno di volersi chiudere a doppia mandata in una sorta di autoreferenzialità ideologica, può evitare di rimettersi schiettamente in discussione.
Le nuove tecnologie, via via le più intriganti che interferiscono con gli stessi processi cognitivi, manifestano un formidabile “impatto antropologico”, letteralmente curvano lo spazio concettuale entro cui l’ “umano” ha fin qui pensato sé stesso e lo riallineano in una nuova, inedita dimensione.
In uno scenario epocale del genere un partito cattolico – sia pure “di” o “dei” cattolici – come anche qui osserva giustamente Cominelli – non è più possibile, ma neppure serve. Il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici non è ascrivibile alla cosiddetta “diaspora” seguita alla scomparsa della Democrazia Cristiana, ma è, molto di più, il frutto di un più antica, lenta, progressiva maturazione critica che ne ha articolato il campo almeno fin dagli anni del Concilio. A cominciare dal superamento del “collateralismo”.
Oggi tale pluralismo dobbiamo viverlo come ricchezza, piuttosto che come dissipazione. Ciò che davvero è importante e necessario – ed è il passo che INSIEME ha affrontato – è che venga rimessa in campo una cultura politica ed una proposta programmatica di ispirazione cristiana, che non si attardi nel pre-politico e non si limiti alla formazione delle coscienze, bensì affronti, laicamente, i tornanti di un confronto politico a tutto campo. Un partito che parla a tutti, forse addirittura prevalentemente a chi cattolico non è, purché sappia dar conto della fecondità umana e civile della visione cristiana cui si ispira. Ricercando quel linguaggio e quegli argomenti che possano rendere accettabili, comprensibili, addirittura accattivanti, anche per chi proviene da altre culture, i valori che i credenti hanno ricevuto in dono in uno con la fede.
Insomma un partito che sia, secondo l’ammonimento di Francesco, a sua volta “in uscita” e si incammini verso quelle “periferie” dove si consumano le ingiustizie, le libertà sono violate di fatto, la dignità delle persone offesa ed avvilita.
Domenico Galbiati