Tantissime guerre del passato c’insegnano quanto sia importante che chi le inizia abbia un’idea su di una o più possibili vie d’uscita. E questo anche nei casi in cui si tratta di conflitti destinati a durare e a riproporsi. Una regola cui progressivamente si attennero gli Alleati nella guerra al nazifascismo, e che portò ad una serie di conferenze destinate a regolare il futuro in modo che, in qualche modo, le contrapposizioni d’interesse e di ambizioni che avevano portato quel conflitto non si ripresentassero pochi anni dopo ancora irrisolte. E non producessero, come era accaduto con la Prima Grande guerra, nuovi e più ampi conflitti.

E’ probabile che questa riflessione si applichi anche ai due scontri in atto oggi. Quello provocato dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina e quello tra Israele e Hamas, progressivamente diventato sempre più, nell’ottica di Netanyahu, la ricerca di una “soluzione finale” del lungo contenzioso che divide lo Stato ebraico e il popolo palestinesi. E, per certi versi l’intero mondo islamico, nonostante le divisioni e le rivalità  esistenti al suo interno, come quella tra Sunniti e Sciiti. Divisioni e rivalità, su cui hanno senza sosta soffiato, nel corso degli ultimi decenni, i paesi occidentali, palesemente per favorire Israele e il suo espansionismo.

In realtà, come ci dicono le cronache mondiali sulle reazioni alla violenta risposta di Netanyahu all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la questione è tracimata ben oltre lo scacchiere che si trova tra Mediterraneo e Golfo Persico. Ed è giunta ad una tale intensità da farci chiedere se il Primo ministro israeliano stia comprendendo quali potrebbero essere le conseguenze di lungo termine per quella che pare un’azione militare destinata al successo militare immediato, ma che rischia, comunque, di non avere una via d’uscita solida e duratura, in grado di assicurare quella pace che Netanyahu dichiara di voler cercare.

Inevitabile, a questo punto, un inciso di commento alla sua dichiarazione all’Onu secondo cui le Nazioni Unite rappresenterebbero una “palude di antisemitismo”. C’è un interessato errore di prospettiva da considerare. Criticare il suo governo e i modi con cui questo ha reagito al pericolo rappresentato da Hamas ed Hezbollah non è affatto segno di antisemitismo. Anzi, all’opposto, potrebbe esser frutto di una sincera “vicinanza” con il popolo ebraico che aspira ad una vita pacifica: cosa che non sarebbe garantita se raggiunta solo con le armi. E sappiamo bene che, per quanto minoritarie, non mancano in Israele le voci di chi non è d’accordo con la politica segregazionista e di occupazione della Cisgiordania, diventata sempre più una politica di spoliazione da parte dei coloni ebrei, e definita dalle stesse autorità dello Stato ebraico “territori occupati”. Pure noi abbiamo dato conto prima del 7 ottobre 2023 delle dichiarazioni di autorevoli ex generali ed ex responsabili del Mossad sulla politica segregazionista applicata nella West Bank (CLICCA QUI).

Nella tragica e complessa “questione mediorientale” c’è tutta una serie di responsabilità storiche che Israele continua a non affrontare, che certo non fanno dimenticare quelle dei responsabili politici e militari dei palestinesi; tutte destinate a sommarsi a quelle di oggi. E che si configurano ancora di più come un vero e proprio “fuoco amico”, causa di “danni collaterali”, che Israele farebbe bene a considerare in una prospettiva più ampia. Come farebbe se solo avesse la voglia di trovare davvero via d’uscita da uno scontro che risale al 1948, se non a prima.

Il primo “fuoco amico” è stato indirizzato contro il Diritto internazionale. Visto che nessuno può attaccare impunemente un altro paese. Questo è valso per Putin e dovrebbe valere per il Governo israeliano giunto a bombardare indiscriminatamente il Libano, e ad occupare, addirittura, la torre di controllo dell’aeroporto di Beirut, sulla fragile base del convincimento che stesse giungendo un aereo dall’Iran carico di armi. Ci sono i meccanismi internazionali di tutela e ad essi ognuno dovrebbe esclusivamente fare riferimento, costi quel che costi. Questo, ovviamente, vale anche per la Corte penale internazionale. Costituisce un grave errore, foriero di gravi conseguenze, la mancanza di rispetto di organismi internazionali chiamati a far osservare il Diritto universale.

E’ inevitabile che le relazioni con l’Onu siano ormai ridotte al minimo storico. Netanyahu ha rimproverato ad Hezbollah di aver rifiutato “in modo sfacciato” di rispettare la risoluzione 1701 del 2006. Dimenticando la quantità assai cospicua di risoluzioni che Israele non ha voluto rispettare anche ben prima di quella data. Un comportamento, insomma, quello di Israele, che porta a chiedersi quale possa essere il vantaggio nel vedere costantemente scendere all’Assemblea delle Nazioni Unite il novero dei paesi schierati vicini allo Stato ebraico. Nei confronti della cui politica molti paesi esprimono ormai regolarmente un voto ad esso contrario. O sono costretti, almeno, all’astensione, com’è sempre più frequente nel caso della maggior parte di quelli europei.

Ma – cosa più importante – il “fuoco amico” è anche quello verso gli Stati Uniti, che appaiono ormai del tutto impotenti a svolgere una qualsiasi funzione, non si dica di leadership, ma neanche di moderazione e di equilibrio. Nel ruolo americano in Medio Oriente appare del tutto evidente un’oggettiva svalutazione che non è detto dipenda solamente dal Presidente di turno alla Casa Bianca. Il vero problema è che tale svalutazione si registri proprio mentre è evidente la creazione di un “fronte” dei cosiddetti paesi del sud del mondo contro gli americani e i loro alleati. Nonostante l’invasione dell’Ucraina, questo fronte non ha difficoltà a definire più stretti rapporti con Mosca.

Un altro effetto collaterale è quello che ha colpito le cosiddette “Paci d’Abramo”, che avrebbero dovuto ricucire i rapporti diplomatici di Israele con tutti i suoi vicini arabi. In particolare, l’Arabia saudita con cui sembra siano finiti gettati all’ortica anni ed anni di trattative.

E a Netanyahu non sarà sfuggito il rilievo con cui l’emittente al Arabiya ha reso nota la dichiarazione del Ministro degli esteri saudita, il principe Faisal, che fa segnare un grosso passo indietro a quel Patto cui tanto aveva lavorato Donald Trump: “La guerra in corso ha causato una devastante catastrofe umanitaria a causa dei crimini israeliani in Cisgiordania, nella moschea di Al-Aqsa e in altri luoghi sacri musulmani e cristiani”. Per poi aggiungere:” il diritto all’autodifesa non giustifica l’uccisione di decine di migliaia di civili, lo sfollamento forzato, l’uso della fame come strumento di guerra, l’incitamento, la disumanizzazione e la tortura sistematica, inclusa la violenza sessuale e altri crimini documentati da parte dell’esercito israeliano”.

Particolarmente importante la decisione saudita di dare vita a quella che è definita una “coalizione globale” per la creazione dello Stato della Palestina. E indicando quelli del 1967 i confini da considerare. Da un lato, si chiarisce un punto che portò al fallimento degli accordi di Oslo del 1993, all’indomani dei quali Arafat fu costretto a precisare che lui, però, pensava alla carta geografica del 1948. Dall’altro, appare evidente che anche le monarchie del Golfo non possono più ignorare la “questione palestinese”, anche perché non la possono più lasciare di sola pertinenza all’Iran e al mondo Sciita.

Insomma, più che esaltare successi che magari decapitano – ma solo per un po’ di tempo – i gruppi più ostili ad Israele, forse è il caso che Netanyahu, pensando soprattutto al bene del suo paese, più che al proprio futuro politico, ricordi la famosa frase “fanno un deserto e lo chiamano pace”. Frase attribuita da Tacito al generale nemico dei romani Calgaco.  Con in più una riflessione su come il mondo stia cambiando e su come ben diversi da quelli del passato siano gli equilibri in evoluzione. Equilibri le cui conseguenze mediorientali che Israele potrebbe non essere più in grado di controllare  puntando tutto, come crede di fare, sul solo strumento militare.

Giancarlo Infante

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