Siamo passati da un Paese che aveva otto milioni di iscritti ai partiti, come ha ricordato Bruno Tabacci in una recente intervista (Formiche” 19 ottobre) a un Paese che premia generosamente alle elezioni politiche prima la Lega di Bossi, poi Berlusconi, poi Grillo e il suo Movimento 5 stelle, ed ora la onorevole Meloni, che ha un partito, ma chi è intorno a lei era fino a ieri quasi sconosciuto.
Si sono susseguite in vent’anni ondate di consenso che, volta a volta, premiavano chi si proponeva come protagonista del cambiamento, salvo abbandonarlo nelle ondate successive. La personalizzazione della politica e l’avvento dei social, dove tutti scrivono di tutto, dai cretini agli scienziati, hanno fatto il resto.
La differenza tra i partiti che avevano rapporti con l’elettorato e i leader che si propongono ogni volta come il “nuovo” è semplice: nella cultura delle forze politiche c’era sempre il richiamo permanente ai doveri e al senso di responsabilità, condizioni essenziali per la vita democratica. Basta riandare ai discorsi di De Gasperi, di Moro, di Einaudi e dello stesso Berlinguer per avere la misura della costanza di questo richiamo.
Oggi, evocare doveri e responsabilità non porta voti. Vincono le aspettative, i diritti, le garanzie, le tutele, i bonus, le promesse, il cambiamento ancora una volta. E chi sa proporli vince.
Questa volta ha vinto la coalizione di centrodestra o meglio il partito di destra. La componente centrista, che avrebbe dovuto essere quella di Berlusconi, ha assunto dopo il voto sembianze filo putiniane per effetto di alcune clamorose esternazioni del suo ormai patetico fondatore-padre-padrone.
Non è corretto revocare in dubbio le ripetute dichiarazioni sulla guerra in Ucraina, sulla fedeltà all’Alleanza atlantica e sullo spirito europeo dell’onorevole Meloni anche se saranno poi i fatti a confermarle. E’ certo sin da ora che la signora Presidente del Consiglio dovrà guardarsi anche dell’altro alleato, la Lega di Salvini che fino a ieri è stata notoriamente ambigua sui temi della politica internazionale.
L’avvio della legislatura non si può dire certo incoraggiante con le nomine dei Presidenti di Senato e Camera. Non ci vuole molto per capire che la “neutralità” è un concetto molto relativo. In sede di esame dei progetti di legge il Presidente dell’aula può decidere di accorpare gli emendamenti con contenuto analogo e quindi se ne è respinto uno decadono anche gli altri. Oppure dichiarare inammissibili alcune interrogazioni, ed è già successo. Per non dire delle esternazioni del presidente della Camera che si è già detto contrario alle sanzioni della Comunità europea alla Russia.
I fatti li conosceremo a breve. L’autorevolezza di Draghi aveva posto le premesse per una stretta alleanza Berlino- Parigi- Roma come asse portante dell’Unione Europea, non a caso riferibile ai suoi fondatori. Se si dovesse interrompere questa linea per aderire a quella conservatrice, con ungheresi e polacchi, difficilmente il governo reggerebbe. Né si può ignorare a questo riguardo che l’onorevole Meloni è Presidente dei conservatori europei che non brillano certo per spirito europeista.
Tenuto poi conto che la recessione è ormai alle porte e che la Banca Centrale Europea non è più l’ombrello che da dieci anni acquistava tutti i titoli pubblici in eccesso, sarebbero i mercati a fare il resto.
Decisive saranno anche i primi provvedimenti sul fabbisogno energetico, considerato che proprio l’Italia sollecita un accordo nell’Unione su un tetto al prezzo del gas in alternativa alle scelte solo nazionali. Gli appelli di Confindustria e dei sindacati sono drammatici per le ricadute in corso sia sui costi delle imprese, sia sulle spese delle famiglie. L’attuazione del PNRR sarà poi decisiva in termini di spesa effettiva, e il completamento di alcune riforme resta condizione essenziale per ottenere le risorse.
A breve avremo i primi provvedimenti di urgenza. Poi sarà l’azione di governo a dispiegarsi, da misurare già nel corso dei tradizionali primi cento giorni.
Guido Puccio