Chi oggi non è preoccupato per il presente e per il futuro del nostro Paese, probabilmente vive in un suo benessere ovattato, difeso dalle mura domestiche, senza collegamenti con il mondo esterno. Come non essere inquieti per il “coronavirus”, entrato ormai nella nostra vita quotidiana? E come possiamo non esserlo, se questa sorta di superinfluenza – certamente da non sottovalutare nella cura e nella prevenzione – è stata trattata dai media come se fosse la peste nera del XXI secolo? Dobbiamo stupirci se i supermercati si sono svuotati per un irragionevole accaparramento di cibo e se l’Amuchina, triplicata di prezzo, è andata esaurita?

In questi ultimi giorni l’informazione è diventata di fatto monotematica: dobbiamo allora riandare ai servizi dei vari tiggì delle scorse settimane per considerare altre nere nubi sul futuro del nostro Paese. Una è lo stillicidio di crisi aziendali, in cui si ripete il solito copione: una multinazionale decide di chiudere uno o più stabilimenti nel nostro Paese, indipendentemente dalla qualità della produzione e della mano d’opera, e condanna migliaia di lavoratori a incrementare il numero dei disoccupati. Capita nella siderurgia (Arcelor-Mittal), nella meccanica (Whirlpool ecc.), nella grande distribuzione (Mercatone Uno, Auchan), nelle banche (Unicredit in testa), nei servizi (Almaviva, Air Italy ecc.). E aggiungiamoci Alitalia, che ogni giorno perde un milione di euro, finora ripianati dal bilancio dello Stato, cioè dai soldi del cittadino contribuente. Infine, la cassa integrazione ordinaria, gennaio 2020, è aumentata del 30% e quella straordinaria addirittura del 52% rispetto al gennaio 2019.

Ma l’economia in crisi non è neppure la notizia peggiore di questi mala tempora. Dovrebbero preoccupare di più alcuni scenari di prospettiva. Ad esempio l’aumento delle disuguaglianze, che procede inesorabile anche in tempi di recessione. Non che faccia gran differenza se i “paperoni” italiani e mondiali, grazie soprattutto a operazioni finanziarie, si arricchiscono di qualche miliardo: ciò che importa è l’impoverimento di crescenti masse che la riduzione del lavoro fa retrocedere da ceto medio a ceto popolare, costretto a erodere i risparmi – se ci sono – fino a quando ci sarà da attingervi. Che le nostre città – e il discorso vale per il resto dell’Occidente – si trasformino in un modello sudamericano, con quartieri ricchi protetti da telecamere e vigilantes e desolate periferie di sottoproletariato, non è fantascienza ma una concreta prospettiva di anni non così lontani.

Restando in tema di disuguaglianze, porterà crescente malessere sociale il fatto di avere le generazioni under 50 destinate a ricevere intorno ai 70 anni pensioni complessivamente ridotte o ridottissime, calcolate sui (pochi, nell’era del lavoro precario) contributi effettivamente versati che contrastano con i milioni di “privilegiati del retributivo” (assegno calcolato sul massimo stipendio) andati in pensione da cinquantenni – con 35 o 32 o 27 anni di contributi + CIG e mobilità, e oggi ne occorrono 42 – o ancor prima grazie alle baby pensioni. L’INPS ha comunicato che esistono in Italia 650.000 assegni riscossi da oltre 40 anni. E non si tratta ovviamente di ultracentenari, che sono solo una piccolissima parte…

È vero che lento il passare degli anni metterà fine alle storture pensionistiche, ed è ancor più vero che tante pensioni “gonfiate” dei nonni soccorrono le difficoltà di figli e nipoti, in un diffuso – per fortuna – welfare familiare. Malgrado ciò, ogni anno si accumula un saldo negativo tra nati e deceduti, giunto lo scorso anni a 160.000 unità. In Italia le culle sono vuote, soprattutto perché, come ha ben sintetizzato il professor De Rita, “una società che non sa più dire ‘noi’ non fa figli”. E neppure si preoccupa se altri giovani, più o meno 150.000 ogni anno, emigrano per trovare all’estero una prospettiva di lavoro, e di futuro.

Un futuro nebuloso anche per i cambiamenti climatici. Ci siamo accorti che quest’anno non è arrivato l’inverno? Che non piove da mesi? Che abbiamo avuto a febbraio le terse giornate e il tepore che ricordavamo ad aprile? Non dovremmo poi stupirci quando l’acqua alta a Venezia stabilirà un nuovo record…

Di clima però non ne sappiamo più della casalinga di Volvera (versione piemontese di quella più celebre di Voghera), e conviene fermarsi. Qualcosa di più conosciamo della Storia, e dal passato sono ricomparsi inquietanti fantasmi. Nella Germania in piena crisi economica dopo le ripercussioni del crollo di Wall Street, alle elezioni politiche del 1930 i “partiti estremi” ottennero un forte incremento: i comunisti salirono al 13% e i nazionalsocialisti di Adolf Hitler ottennero il 18%: la somma fa 31%. Alle recenti regionali della Turingia la Linke, sinistra post-comunista, ha ottenuto il 31% e i neonazisti dell’AFD il 23%: la somma fa 54%… Per qualcuno il parallelo tra i due periodi non sarà pertinente, ma gli consiglierei di leggere comunque le considerazioni di Guido Bodrato (a questo link).

Anche perché qui da noi non stiamo poi tanto meglio. Non solo la presenza neofascista si rende più visibile e le “provocazioni” si fanno più frequenti e sfacciate, ma il virus del negazionismo si sta diffondendo sempre più: una statistica pubblicata sul Rapporto Italia di Eurispes dice che il 15,6% degli italiani nega la Shoah (era il 2,7% nel 2004) e un altro 16,1% (sedici anni fa era l′11,1%) ridimensiona la portata dell’Olocausto, sostenendo che le vittime sono meno di quelle indicate nei libri di storia. E gli episodi di antisemitismo – pensiamo alle minacce a Liliana Segre o alle scritte contro ebrei a Mondovì e Torino – vengono considerati dal 37% una semplice “bravata”.

La crisi economica e morale sta rinfocolando vecchi “mostri” generati dal sonno della ragione nell’attuale era del populismo che solletica pance e bassi istinti.

La politica dovrebbe – non solo in un mondo ideale – indicare virtuosamente la via per risolvere i problemi e dare un esempio di comportamento coerente con i valori annunciati. Dovrebbe in un certo senso essere fatta da tanti Sergio Mattarella. Purtroppo gli attori sul palcoscenico della politica non ne hanno il profilo.

Nel centrosinistra si gongola ancora perché Salvini non ha sfondato in Emilia. Eppure, con una nullità candidata a presidente della Regione, la Lega ha comunque ottenuto il 32%, vincendo a mani basse in tutti i territori periferici, dell’Appennino e della Bassa padana. Solo la ricca e popolosa fascia che si estende lungo la via Emilia tra Reggio e Cesena ha permesso a Bonaccini di riconfermarsi governatore, salvato dalla mobilitazione delle Sardine (avere recuperato il 30% di votanti in più rispetto al minimo storico del 2014 è in buona parte merito loro) e dalle citofonate di Salvini che gli hanno alienato un po’ di voti moderati.

Certamente le baruffe tra le forze di governo, che hanno in Matteo Renzi il galletto più baldanzoso, non aiutano a ricreare le condizioni per una rigenerazione della politica e a infondere fiducia. Adesso l’emergenza “coronavirus” ha quasi silenziato il gallinaio della politica con la “p” minuscola, interessata al +0,1 nel sondaggio settimanale e alle nomine “amiche” nelle Partecipate. Ma riprenderà appena possibile, fornendo la stessa immagine dell’orchestrina che continuava a suonare sul Titanic.

Scrivevamo in agosto che “anche in persone normalissime si fa strada il pensiero che sia necessario un ‘uomo forte’ capace di uscire dal pantano di una politica che non dà più risposte e prospettive”. Salvini, che già si era lasciato sfuggire di puntare ai “pieni poteri”, rimane il più credibile candidato a ricoprire il ruolo, per la sua abilità nel cavalcare le paure, oggi ingigantite dall’epidemia.

Per evitare una deriva autoritaria è però davvero necessaria una profonda “trasformazione” – come ha scritto Zamagni nel suo Manifesto – che non può essere guidata da ormai screditati protagonisti di una stagione politica priva di idealità e di tensione morale. Se esistono dei “liberi e forti” non dovrebbero più attardarsi in analisi sofisticate, distinguo e prudenze, ma gettarsi con coraggio nella mischia, dato che la “necessità storica” – quella che il professor Traniello vede come requisito propedeutico alla discesa in campo dei cattolici dei democratici popolari di ispirazione cristiana – è ormai acclarata, e richiede un “pensiero forte” (ancora Zamagni) orientato al bene comune ed esplicitato in azioni forti, raccolte in un programma.

L’impresa è ardua, complessa. Per qualcuno velleitaria o, addirittura, disperata.

Ma un lapidario pensiero di Giacomo Leopardi ci dà un’indicazione chiara per spronarci ad agire: “l’irresoluzione è peggio della disperazione”.

Alessandro Risso

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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