I movimenti, le associazioni, i partiti, insomma l’intera gamma di soggetti che fanno riferimento all’area “popolare” e sono, sia pure a vario titolo, orientati a sperimentarne un’eventuale, possibile ricomposizione, cosa hanno davvero in comune, oltre a condividere questa aspirazione? Oltre la necessaria precondizione di una rigorosa affermazione della loro autonomia di cultura e di elaborazione politica e poi di schieramento dai due poli del bipolarismo maggioritario?
Se l’obiettivo fosse semplicemente quello di affrontare congiuntamente la prossima consultazione elettorale europea, tanta fatica lascerebbe francamente il tempo che trova.

Si tratta piuttosto di capire se e come il “popolarismo” – fatta salva la puntualizzazione aggiornata di tale termine – sia in grado di dare un reale apporto alla lettura del momento storico ed alla individuazione delle categorie interpretative necessarie ad orientare una proposta politica, che abbia, se così si può dire, un sapore profetico.

Il bello della politica è che poco o nulla ha a che vedere con una sussiegosa politologia che immagina di confinare i fenomeni sociali emergenti nelle dotte maglie di una dottrina accademica. Questo vuol dire che la partita la si gioca sul campo e non a tavolino. In altri termini, i popolari devono dimostrare – prima a sé stessi e solo poi agli altri – di essere o meno in grado di porsi come “partito di programma”, nel senso in cui ne parlava Sturzo.

E’ già il momento di stabilire alcuni possibili capisaldi di un tale progetto, i punti di repere che consentano di orientarsi in una esplorazione complessa che nulla trascuri e quanto più possibile riconduca la pluralità delle questioni in campo entro una cornice che dia loro la necessaria coerenza.

Veniamo da una lunga, pluridecennale stagione dominata dalla cultura dei “diritti civili”, interpretati secondo una chiave di lettura fortemente individualista che ha trasformato il desiderio in diritto. Che connessione c’è tra questo orientamento che ha frammentato il tessuto sociale, ha perso per strada quel sentimento di appartenenza ad un orizzonte comune, che del “popolo” è un tratto distintivo, ha offuscato coesione e solidarietà ed i fenomeni di fragilità affettiva, di precarietà’ esistenziale, di profonda e disorientata insicurezza che sono, in ultima analisi, riconducibili ad un vissuto di solitudine?

E’ tempo di voltare pagina e di dare avvio alla stagione dei “diritti sociali” partendo dai “bisogni” che si vivono nelle famiglie degli italiani. Che hanno bisogno di tornare a coltivare una speranza che li incoraggi e li rassicuri.
Il lavoro, la salute, l’educazione dei figli: ci sembra questo il tridente d’ attacco per aprire una nuova fase “popolare”, fatta di solidarietà e di impegno comune nella vita dell’ Italia.

Domenico Galbiati

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