No all’eutanasia. In qualunque forma. No al suicidio assistito. Punti fermi.
La vita è un dono ed, anche per chi non crede, un bene indisponibile. E’, infatti, anzitutto, non un che di autoreferenziale, un possesso esclusivo, ma, piuttosto, una responsabilità nei confronti di sé stessi ed, a stesso titolo, degli altri.
Mai si nasce, si vive e neppure si muore da sé, ma nel vivo delle relazioni, anzitutto affettive, che costruiscono la personalità unica ed irripetibile, nonché la dimensione sociale di ognuno. E si deve partire da qui per leggere correttamente e comprendere la recente intervista di Mons. Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
Suscitera’ commenti e reazioni di diverso segno, perfino a dispetto del “generale Agosto”. Qualcuno vi leggerà una cocciuta rivendicazione delle posizioni tradizionali della Chiesa e continuerà a scorgervi tracce evidenti di oscurantismo. Altri vi vedranno un cedimento al “mondo”, un timido e timoroso accostamento a tesi laiche o laiciste. Insomma, gli opposti estremismi di cui parla Mons. Paglia e, d’istinto, verrebbe da dire – a costo di mutuare dal linguaggio della politica – che la verità sta nel mezzo, secondo, perfino qui, la dannata ossessione per il “centro”. Ma non è così.
Mons. Paglia non va alla ricerca né di una mediazione, né, tanto meno, di un compromesso, neppure di un aggiustamento allo spirito del tempo, in sostanza al prevalente sentimento individualista dei nostri giorni.
Mai come in questo caso la verità non sta nel mezzo. Sta al di sopra. E non nel senso della mediazione, per quanto ogni mediazione sia verticale ed, al contrario, ogni compromesso sia, invece, orizzontale.
Qui siamo su un altro piano, in un diverso contesto di riflessione e di argomentazione, alla ricerca tutt’altro che strumentale, opportunistica o capziosa di quel sottile, quasi impalpabile discrimine in cui la vita trova e riconosce il rapporto più intimo e delicato con la sua stessa dignità.
Nulla di nuovo in quanto a principi e dottrina della Chiesa, ma, piuttosto, un’attenta ricognizione del momento in cui la cura ed il prendersi cura rischiano di scivolare in un accanimento che diventa offensivo. Non a caso, Mons. Paglia torna ad insistere sulle cure palliative e sull’accompagnamento. Due versanti cui non bastano né le competenze professionali né le risorse delle tecnica se non sono accompagnate da un’attitudine all’empatia nei confronti del paziente.
Vuol dire che fare il medico o, comunque, ad ogni livello, anche il più semplice, l’operatore sanitario non è un mestiere come gli altri. Richiede un’apertura ed una capacità di ascolto e di accoglienza che, a sua volta, esige un lavoro di affinamento della propria umanità.
Mentre comunemente si tende a pensare il contrario, quanto più sono invasive e pervadenti le potenzialità della tecnica, tanto più è necessario questo supplemento di coscienza e di umanità.
Le parole di Mons. Paglia richiamano la nostra attenzione su uno scenario ampio e coinvolgente. Lo si può anzi, dire sconvolgente e perfino drammatico: concerne la gamma di interrogativi che l’uomo non può fare a meno di porre a sé stesso, circa la sua stessa consistenza e la sua comprensione più profonda di sé a fronte della tecnica. La quale, anche qui diversamente da quanto comunemente si pensa, anziché dissipare l’umanità della persona, in un certo senso la sfida e la riconsegna ad un percorso di maggior consapevolezza di sé .
Sapranno certi ambienti radicali più o meno esasperati comprendere il rilievo del “valore umano” che il rigore di Mons. Paglia implica? E sapranno corrispondervi?
Domenico Galbiati