Ero sempre stata sicura che alla fine l’Unione Europea ce l’avrebbe fatta a rendere disponibili fondi per affrontare la grave crisi da pandemia. Non poteva rischiare un tracollo proprio ora, e la Germania ben lo sapeva, insieme con la Francia, che usufruirà abbondantemente dei capitali resi disponibili: Il MES per la sanità, il SURE per la cassa integrazione, la BEI per investimenti a merito di credito e ora il RECOVERY FUND sul bilancio europeo, che è una nuova voce affiancata a quelle già esistenti per allocare fondi in maniera mutualistica.
Per capirci, si tratterà di un fondo che si affiancherà ai fondi strutturali allocati dal bilancio europeo alle regioni arretrate o ai paesi dell’est, che sono finanziati pro-quota dai paesi europei (ad esempio, circa l’11% dall’Italia e il 27% dalla Germania), ma che vengono goduti interamente da quelle regioni/paesi che ne hanno diritto, senza restituzione. Se il nuovo fondo necessiterà anche di una raccolta di liquidità sul mercato, questa raccolta verrà fatta direttamente dalla UE e i suoi costi verranno pagati annualmente sempre sul bilancio della UE.
Non graverà quindi direttamente sul debito pubblico dei singoli paesi. Piccole nazioni come Austria o Olanda, possono bensì dichiararsi contrarie al Recovery Fund, dimostrando un’irresponsabilità e un’insensibilità che sicuramente tornerà a loro svantaggio, ma l’asse franco-tedesco dell’Unione Europea ha troppo da perdere se l’Unione non sta in piedi da darsene pensiero. Alla fine, anche questi paesi saranno ricondotti alla ragionevolezza. Le condizioni del Recovery Fund non sono ancora del tutto note, ma in ogni caso sarà un fondo gestito dall’Unione europea secondo criteri stabiliti ex-ante e progetti presentati.
Ad ottenere un risultato così positivo hanno contribuito la fattiva presenza a Bruxelles del nostro commissario europeo Gentiloni, la diplomazia pacata del nostro ministro Gualtieri e la ferma posizione del nostro governo. Fin qui tutto bene. Il difficile viene adesso e ha a che vedere con la gestione di tutti questi danari. Deve infatti essere ben chiaro che si tratta di una occasione, forse l’ultima occasione, per l’Italia di uscire dalla sua condizione di fanalino di coda dell’Europa, in cui è stata confinata dalle miopi politiche dei governi dell’ultima ventina di anni.
Indubbiamente, una parte consistente della pioggia di miliardi europei dovrà essere devoluta agli interventi di emergenza sulla Cassa integrazione e sui vari contributi a fondo perduto per le partite IVA, le piccole imprese e il reddito di emergenza. E questa è la parte più “facile”. Poi ci sono gli investimenti per la sanità, e già qui le cose diventano meno ovvie, perché non basta rafforzare i reparti per malattie infettive, occorre ripensare alla medicina di territorio e dunque ai medici di famiglia e ai presidi sanitari, alla gestione sanitaria delle RSA, al rafforzamento degli ospedali nel Mezzogiorno e alla partecipazione dell’Italia ai progetti internazionali di ricerca. Va subito installato un pool di esperti che producano progetti da discutere a livello civile e politico, in modo da essere pronti ad avviare investimenti mirati. Di sicuro la protezione civile non è la sede adatta per l’elaborazione di tali progetti. Occorre inserire nel pool rappresentanti dei maggiori centri di ricerca, medici di base, economisti sanitari.
Tutti gli altri fondi vanno incanalati in ambiziosi investimenti di ristrutturazione dei vari comparti produttivi esistenti. Ricordo che se l’Italia oggi è fra i paesi avanzati (non si sa per quanto, se non ci decidiamo ad investire), il merito è dell’utilizzo che i governi di De Gasperi hanno fatto dei fondi di contropartita a valere sul Piano Marshall. Questi fondi venivano accumulati dal governo italiano a seguito della vendita sul mercato dei prodotti inviati gratis dal governo americano, per colmare l’assenza di riserve di dollari dei paesi europei (furono 16 i paesi europei che usufruirono del Piano Marshall), che impediva loro di fare i necessari acquisti sui mercati internazionali. I prodotti arrivavano gratis, ma i governi li vendevano a prezzi di mercato nella loro moneta corrente e accumulavano dunque fondi che, dietro accordo con gli americani, potevano essere utilizzati in vari modi. L’Italia (come Francia e Germania, ma non la Gran Bretagna) li utilizzò a scopi di investimento, finanziando attraverso l’IMI l’ammodernamento dei settori trainanti della siderurgia, della meccanica (specie mezzi di trasporto), della chimica, dell’energia e delle infrastrutture, oltre che di altre industrie minori, ma strategiche.
Era un tempo in cui i disoccupati, i sotto-occupati e i poveri in Italia erano moltissimi, ma il governo aveva chiaro che quello era un treno con la storia che non si poteva perdere e che in effetti diede avvio al “miracolo economico”. Le condizioni di disoccupati e poveri non cambiarono immediatamente, anche se i governi De Gasperi comunque cercarono di fare qualcosa anche per loro (il piano di edilizia popolare noto come “Piano Fanfani”, la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno), ma col miracolo economico il paese si rimise in moto. Purtroppo anche oggi abbiamo tanti disoccupati, sotto-occupati e poveri, ma se esauriremo i fondi in una distribuzione di sussidi a pioggia, non ci sarà futuro per il paese. In primo luogo dunque occorre comprendere che questo appuntamento col treno della storia non va perso. Ma anche se questa comprensione ci fosse, resterebbe un altro grave rischio: che gli investimenti vengano affidati in ordine sparso a coloro che arrivano primi nel presentare progetti. Oggi i settori trainanti non sono più gli stessi dell’epoca della ricostruzione (salvo le infrastrutture, che vanno rammodernate), ma altri: l’educazione, la ricerca, la digitalizzazione, la salvaguardia e ripulitura del territorio, l’agricoltura sostenibile e la sostituzione delle energie rinnovabili a quelle inquinanti. Perché perdiamo tanti giovani qualificati costretti ad andare all’estero? Perché non ci sono stati sufficienti investimenti in centri di ricerca e in industrie avanzate.
Ho sentito in questi giorni affermazioni come: 100 miliardi (del Recovery Fund) per la ristorazione, il turismo e il made in Italy. Di sicuro non sono contro la ristorazione, il turismo e il made in Italy, ma par possibile che non si capisca che se continuiamo ad investire solo lì, l’Italia scadrà al livello delle Seychelles o di Sharm El Sheikh, con tutto il rispetto per quei bei resort marini? Si tenga poi conto del fatto che, se si faranno gli investimenti che ho sopra segnalato, anche ristorazione, turismo e made in Italy se ne avvantaggeranno in termini di modernizzazione dell’offerta ed effetti positivi di contesto. Occorre dunque che il governo decida sulle priorità ed offra facilitazioni di investimento a tutti coloro che hanno qualcosa da offrire nelle direzioni stabilite. Nessuno è escluso dagli investimenti, ma gli altri investimenti dovranno accettare condizioni di credito standard, che comunque oggi sono piuttosto favorevoli. Per quanto riguarda in particolare la scuola, che è a gestione pubblica, anche in questo caso occorre attivare un pool di esperti che produca progetti di ristrutturazione della nostra scuola, facendola transitare dal sistema fordista in cui è ancora immersa ad un sistema più flessibile, partecipativo, con scambi col territorio e le imprese, con un’educazione concreta alla solidarietà e al civismo. Non basta certo assumere più docenti e sistemare un po’ le aule, occorre che la scuola torni ad educare!
Di un ultimo rischio intendo parlare ed è l’eccessiva burocratizzazione che attanaglia il paese. Avevamo già fondi per investimenti mai spesi per lungaggini amministrative, ma ora tutti hanno bisogno di fare degli interventi, dal piccolo negozio al ristorante, dall’artigiano al parrucchiere. Non si può più tollerare che per qualunque richiesta di permessi, documenti e quant’altro debbano passare settimane o mesi, senza parlare dei grossi investimenti fermi per anni. Per ovviare a questo annoso problema, occorre attivare una task force incaricata di semplificare, pretendendo risultati in tempi brevi, sul modello citato da molti del ponte di Genova. Davvero la società civile, se non vede miglioramenti, deve organizzare una vibrata protesta, perché la de-burocratizzazione è un passaggio cruciale. Ma in generale oggi la società civile ha la grande responsabilità di elaborare pensiero ed essere pronta all’azione. Il mondo non va certo avanti con il pessimismo e i lamenti.
Vera Negri Zamagni