Qualche giorno fa il Ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha fatto sapere di ritenere esaurita la propria funzione. La spiegazione ufficiale è stata quella di aver raggiunto i risultati prefissi. Cosa che ha colpito non poco. Visto che, a partire dal Pnrr, siamo davvero alle premesse, come ci ha confermato ieri anche Daniele Ciravegna (CLICCA QUI). Ma lo stesso vale per la concreta risistemazione del Ministero e per tutte le questioni ambientali che, certamente, non mancano ad una Italia che continua ad avere enormi criticità in materia ecologica, di salvaguardia del territorio, di sviluppo di infrastrutture adeguate ad una società moderna, ma che ha già molto consumato il proprio patrimonio naturale.

Quello della Transizione ecologica è un dicastero chiave sotto tanti punti di vista. In particolare, per ciò che concerne un punto cruciale che sta dominando l’agenda di tutti i governi del mondo, in particolare di quelli più ricchi ed avanzati: l’energia.

Il passaggio dalle fonti fossili ad altre con un minore impatto ambientale, almeno per ciò che riguarda le emissioni nell’atmosfera, è questione vitale per un paese come l’Italia dipendente al 75% dalle importazioni di gas e petrolio, oltre che dall’energia elettrica prodotta in Francia con il nucleare. Un’equazione difficile da sbrogliare giacché le fonti alternative al momento disponibile non sono oggettivamente in grado di coprire adeguatamente, e immediatamente, il taglio di quelle fossili come richiesto dagli impegni assunti a livello internazionale per contrastare i cambiamenti climatici. L’opzione nucleare, inoltre, deve fare i conti con un quel disimpegno culturale e pratico cui abbiamo dato corso dopo l’incidente di Chernobyl del 1986.

Ora, senza entrare nel merito di questioni complesse, vieppiù rese difficili dalle forze divaricatrici degli interessi economici e politici di natura nazionale ed internazionale, i quali creano profonde divisioni anche all’interno dell’Unione europea (CLICCA QUI), è interessante riflettere sul fatto che il Ministro Cingolani sia stato scelto da Beppe Grillo perché considerato un “tecnico” di altissimo livello. Stiamo sempre più scoprendo quanto Grillo lo abbia “imposto”, a partire dai 5 Stelle.

La questione di un “tecnico” prestato alla Politica o, addirittura, quello di costituire un Governo “tecnico” per rispondere ai limiti delle istituzioni pubbliche e alla durezza dei problemi da affrontare, è tema ricorrente nella storia d’Italia. Divenuto sempre più stringente a mano a mano che si è posto il problema della qualità della classe politica, quella fatta dai cosiddetti politici “di professione”, e della loro incapacità a fronteggiare adeguatamente i problemi cruciali emergenti soprattutto in materia economica e finanziaria. Anche nel resto del mondo è stata questione riproposta in più di un’occasione. In particolare, quando l’elemento tecnocratico è stato messo in risalto per giustificare un passaggio da un sistema istituzionale all’altro. L’immediato dopo Franco in Spagna ne è stato un esempio. Così come è stato nel caso di tanti “cambiamenti”, più o meno violenti, in Africa o in America Latina che si cercava di rendere più accettabili sulla base del convincimento che la classe dirigente più preparata fosse proprio quella rappresentata dei militari.

In Italia il richiamo alla figura del “tecnico” è stata a fondamento della parabola di Carlo Azeglio Ciampi, della nascita del Governo Monti e, in fondo, anche dell’attuale Esecutivo a guida Draghi. Anche se c’è da considerare che c’è “tecnico” e “tecnico”. Soprattutto, là dove c’è da prendere atto di quanto non sia vero che un ministero possa essere equiparato ad un’azienda, come non è vero del resto che il Consiglio dei ministri debba essere concepito come un Consiglio d’amministrazione di una società. La guida di un paese tiene conto dell’economia, ma non può restringere  tutto in una visione economicista; deve conoscere l’evoluzione scientifica e tecnologica, ma questa deve inquadrarla, con realismo e sagacia, in un processo di equilibri più ampi; deve in sostanza considerare che si occupa di essere umani, delle loro aggregazioni e delle loro relazioni. Quando non lo fa, e sono tanti gli esempi della storia moderna e contemporanea, anche il sistema più tecnocraticamente attrezzato finisce a gambe per aria.

L’Italia, anche quella immediatamente post unitaria, non ha avuto il bisogno d’inventarsi la categoria del politico “tecnico”. Sarà un caso, ma la memoria scolastica porta al Conte Camillo Benso di Cavour e alla realizzazione di un sistema idrico, c’è addirittura il canale Cavour dalle sua parti, per assicurare lo sviluppo dell’agricoltura piemontese. E vale la pena di andare al resoconto finale della Commissione d’inchiesta parlamentare sulle condizioni di vita dei contadini del Meridione, dei primi anni del ‘900, per scoprire che il primo capitolo è dedicato alle condizioni orografiche del territorio.

La questione è dunque quella della classe dirigente nel suo complesso. Prendendo atto che, quando si comincia a parlare dei “tecnici” al governo, vuole dire che quella politica non è più tale. E queste sono le nostre condizioni attuali.

 

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