INSIEME pubblica il III° Quaderno curato da Roberto Pertile, responsabile del Dipartimento delle Politiche Industriali, dal titolo “Questa economia non ama la persona” (CLICCA QUI).
Il quaderno è diviso in tre parti:
-“A questa economia non piace la persona umana”
-“Prospettive economiche”
-“Il mondo del lavoro al femminile”
Quello che segue è il contributo di Roberto Pertile, dal titolo “Verso un capitalismo democratico ”, elaborato nel gennaio 2023
È consolidato che la presenza nel sistema produttivo di bassi salari, come è attualmente, rende difficile la crescita economica. E con un modesto sviluppo economico non si va da nessuna parte,
ci vogliono incrementi continui di produttività. Dunque, per fare politica sociale a favore dei gruppi più deboli è indispensabile portare dei cambiamenti nel modello economico che ha governato l’economia degli ultimi decenni: il neo-liberismo, definito da alcuni studiosi, “tecnocratico” (M.Lind, già docente ad Harvard).
La prevalenza del “neo-liberismo” ha significato una ricerca di elevati profitti a breve a danno degli investimenti a medio periodo, che sono l’impiego di capitale che produce occupazione stabile.
Non solo le politiche attive del lavoro non sono state al centro dell’azione di governo del sistema, ma anche le relazioni industriali hanno avuto lo stesso destino. Non sono state, inoltre, prioritarie per i vari Governi le spese per la formazione professionale, come, ad esempio, per la creazione di Istituti tecnologici. Dunque, con il modello “neo-liberista” le disuguaglianze sociali sono sensibilmente aumentate.
Ne consegue che è urgente intervenire con una azione politica che si fondi, principalmente, sui valori del lavoro e della cooperazione di ispirazione sturziana, ricuperando quella volontà ricostruttiva, che è stata alla base del “miracolo“ economico del dopoguerra.
Per un nuovo percorso di rilancio e di trasformazione della nostra società appare, in altri termini, indispensabile un nuovo patto sociale per una rinnovata e consapevole partecipazione popolare,
patto che è fondamentale per una coesione sociale favorevole al cambiamento. A questo fine è apparso deludente il ruolo finora giocato dalla sinistra italiana che, alla luce di recenti analisi e sondaggi, rappresenta sempre meno gli interessi e le aspirazioni dei ceti popolari, che guardano ormai con insistenza a destra, come si evince chiaramente dal risultato delle ultime elezioni.
Questa crisi di rappresentanza ha radici lontane: già negli anni ottanta e novanta le forze di sinistra (Pci e Psi) apparvero divise e incapaci di incidere sulla politica governativa (Macaluso-Petruccioli “Comunisti a modo nostro”).
Un dato, tra i tanti, evidenzia la debolezza della sinistra: negli ultimi trenta anni, il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti nel settore privato è diminuito del 2,9%, unico paese in UE. I paesi europei concorrenti dell’Italia, invece, evidenziano: più 33,7% per la Germania e più 31,1 % per la Francia (Ocse, La Repubblica del 1-1-22).
È evidente, di fronte a questi dati, il motivo per cui i lavoratori approdino ad altri lidi politici rispetto al Pd.
Una delle cause del “declino” del potere di acquisto dei lavoratori trova anche ragione nel fatto che poco o nulla è stato fatto dal maggiore partito della sinistra contro la finanziarizzazione dell’economia e l’espansione delle rendite parassitarie, favorite, anche nel 2022, dalla legislazione fiscale, che da tempo favorisce il capitale finanziario.
Non si vedono presenti sulla scena politica nuove forze sociali ed economiche capaci di dare una risposta incisiva all’attuale crisi di rappresentanza delle forze sociali popolari. È forte nella società la domanda di una capacità riformista dei partiti, domanda che non trova risposta. A questo proposito, il prossimo congresso del PD sembra un’opportunità già persa in partenza.
Il distacco crescente dei lavoratori dalla sinistra trova, dunque, giustificazione nella debolezza politica della difesa degli interessi del mondo del lavoro e della produzione; principalmente, c’è una insufficiente elaborazione di progetti, con la conseguente scadente incisività nell’azione di governo delle forze sociali più deboli.
La sinistra, o meglio il PD, è stata, in questi ultimi anni, una forza statica. Non ha saputo avere una capacità chiara e incisiva di incidere nei processi sociali, economici e culturali di questi decenni.
Anche la fusione a freddo, tra un ipotetico riformismo liberalsocialista (Macaluso-Petruccioli op. cit.) ed esponenti della sinistra democristiana è avvenuta senza una vera compartecipazione popolare.
Al centro dell’operazione c’è la visione “conservatrice” da parte di quella che viene definita dagli addetti ai lavori la “ditta”, cioè la leadership che garantisce il crisma del “socialismo reale”:
parliamo, cioè, della tutela della tradizione del partito berlingueriano.
Il risultato è una aggregazione elettorale dei soliti noti che prescinde da qualsiasi diagnosi aggiornata degli squilibri sociali e da un’ipotetica terapia.
Su questo tema, Massimo Salvadori scrive che, dopo il crollo del muro di Berlino, la maggioranza del Pci deliberò “la propria inevitabile trasformazione in un’altra cosa”. Tuttavia, “diverse parti
dell’esercito ex comunista adottarono linee volte o a negare o a limitare la portata del cambiamento”. Inoltre, si formò la corrente dei “comunisti democratici” che si era prefissata di combattere dall’interno le prospettive di socialdemocratizzazione del nuovo Partito, che nascerà dalle ceneri del Pci (Massimo Salvadori “La sinistra nella storia italiana”).
Questo giudizio non solo spiega la non incisività della fusione delle due principali componenti (ex PCI e ex DC) nell’elaborazione programmatica, ma induce anche a ritenere che, da sempre, vi è stata un’assenza di reali prospettive riformiste nell’azione politica del PD.
Vi sono le premesse per una svolta politica che promuova una nuova capacità laica, democratica e popolare di trasformazione della società. La risposta ai problemi qui posti non risolve il presidenzialismo.
Tre, invece, possono essere i punti di partenza per promuovere una nuova fase di trasformazione della società italiana. Il primo è che il capitalismo non si identifica necessariamente con il “neo-liberismo”: il modello capitalista, infatti, non vive unicamente di “neo-liberismo”, per cui è un sistema riformabile. Per ottenere questo risultato, le riforme strutturali del sistema produttivo necessarie possono essere terreno di incontro delle forze riformiste.
L’ipotesi aggregante è la condivisione della sostenibilità di un capitalismo riformato. Come scrive Giuliano Amato, “occorrono democrazie governanti; non sono socialmente utili le democrazie passive racchiuse nel presente. (G. Amato “Bentornato Stato, ma”).
Il secondo punto è che la positiva diversità dei numerosi mondi vitali presenti in Italia (come insegnano gli studi di Achille Ardigò) favorisce le alleanze riformiste tra i partiti, molto meno le fusioni. In questo senso, va ridimensionato il peso politico delle manovre economiche a breve termine che, essendo normalmente a pioggia, non tutelano gli interessi strutturali dei ceti medio-bassi: i lavoratori dipendenti, gli autonomi, i piccoli imprenditori, le donne. La loro coesione sociale è di per sé un potenziale di valore e di ricchezza economica.
Il terzo punto: il premio di produttività va legato ai risultati nel settore pubblico e privato. Premiare la professionalità, bandire la partitocrazia con l’unificazione dei due mercati del lavoro (privato e pubblico), cercare sinergie tra il capitale e il fattore lavoro: il motore non è la lotta di classe, l’obiettivo è lo spirito della comunità olivettiana.
Infine, tra le riforme del mondo del lavoro e della produzione c’è la partecipazione dei dipendenti agli organi di governo delle società di capitali per una reale applicazione delle procedure di informazione e di gestione.
Un passaggio per ridurre il malessere esistente nel mondo produttivo è, anche, affrontare il tema della democrazia in fabbrica: va perseguito un ribaltamento dell’attuale verticismo sindacale a favore della partecipazione dal basso. Inoltre, vanno promossi investimenti pluriennali in “beni collettivi” per la crescita della competitività: creare, cioè, uno scenario di stabilità occupazionale per vincere la paura del futuro.
Le misure qui evidenziate vanno nella direzione non solo di “correggere” il “neo-liberismo”, ma di realizzare anche un neo-capitalismo democratico cioè un modello dinamico capace di tenere insieme una equilibrata giustizia sociale, la riduzione delle disuguaglianze sociali, il rafforzamento delle istituzioni democratiche, livelli di produttività competitivi a livello internazionale.
In antitesi alla logica del modello neo-liberista e della coerente riforma presidenzialista della Costituzione italiana, il neo-capitalismo democratico consente di gestire politiche industriali che possono ridurre le disuguaglianze economiche con un aumento del reddito dei lavoratori, di attuare una riqualificazione permanente del capitale umano con una riduzione dell’obsolescenza tecnologica, di ottenere una incisiva rappresentanza territoriale dei gruppi sociali più deboli grazie ad una efficiente ed efficace vicinanza tra le Istituzioni e i cittadini.
In conclusione, una nuova politica di trasformazione della nostra società non passa attraverso politiche di neo-presidenzialismo, coerenti con il modello neo-liberista, bensì grazie a processi di coesione sociale radicati in un rinnovato capitalismo democratico.
Roberto Pertile