Riparte, dopo la pausa estiva, una stagione politica, come sempre ricca di temi rilevanti, ma quest’anno, se possibile, anche di più .
L’Ucraina e Gaza; le diplomazie impotenti; l’Europa che prova timidamente a ripartire, ma pur sempre, in certo qual modo, ostaggio delle maggiori potenze; la democrazia in affanno, perfino in America; la Cina che frena il ritmo di sviluppo e sembra entrare in una fase di stagnazione critica; la Russia impantanata in una guerra che non può perdere e non sa come vincere; le potenze minori che sgomitano sul piano delle relazioni internazionali; i conflitti locali ed il terrorismo islamico, i fenomeni migratori.
Su tutto, condizioni di arretratezza, di scambio non equo e di emarginazione che letteralmente immolano interi popoli al benessere di altri. E questo in un quadro che è sì multipolare, ma soprattutto disordinato, privo di una griglia di lettura che consenta, nel bene o nel male, di stimare gli effettivi rapporti di forza e di presentirne gli sviluppi. Si sovrappongono e si condizionano a vicenda fattori interni, europei ed internazionali.
Siamo entrati in una fase di accelerazione della storia, come se fosse irrefrenabile e si facesse, da sola, preda di una sorta di demone, di un’ “hybris” incontrollata, cosicché gli eventi a cascata si riversano gli uni sugli altri, in modo impredicibile, senza che all’orizzonte appaia, come pur succede nei processi non-lineari, un attrattore, attorno cui coagulare un nuovo ordine, un possibile equilibrio.
Domina, anche nei paesi “ricchi” – se mai ve ne siano davvero ancora – una strana, sorda inquietudine; un sentimento di insicurezza e di precarietà; un’alea di solitudine, pur sofferta nel frastuono; una sorta di tremore, di perenne bradisismo esistenziale che carica le persone di una esorbitante fatica del vivere.
La prima impressione è quella di una matassa di questioni di cui è arduo, se mai ci sia, trovare il bandolo. Invece, va ricercato con certosina pazienza, per quanto sia nascosto nelle volute di un filo che pur c’è e, fortunatamente, ininterrotto, senonche’si allunga e si torce, torna e si contorce su di sé. Eppure se può essere, un po’ per volta e senza fretta, dipanato, consente di ricostruire, per quanto la matassa appaia a prima vista indecifrabile, una certa sua logica intrinseca, che può ’%dar conto delle sue modalità di avvolgimento e mostrarne la storia.
È necessario un discernimento prudente, condotto senza forzature, districando, uno per uno, quei punti in cui il filo si embrica con altri e ne va separato senza interromperne la continuità. Al contrario, se piuttosto che il bandolo si afferra il filo in qualunque altro punto e poi si tira e si strattona, ne vien fuori un groviglio inestricabile, laddove ad ogni intreccio, si creano, uno dopo l’altro, tali e tanti nodi gordiani da poter essere sciolti solo con un taglio netto e smarrendo, dunque, la consequenzialità del prima e del dopo, del sopra e del sotto, delle cause e degli effetti.
La prima maniera corrisponde, in un certo senso e fin dove la metafora può reggere, ad un metodo democratico, partecipativo e coinvolgente. Che metta in gioco le persone, fin nell’interiorità della coscienza di ognuno, ne evochi la responsabilità singolare e collettiva, consenta di ricostruire un orizzonte di senso che sappia riaccendere il gusto della vita.
La seconda corrisponde alla logica dell’ “uomo forte”, che dispone dell’ascia del decisore che si impalca sovrano sugli eventi, senza curarsi del messaggio che il loro garbuglio pur contiene. In altri termini e per quanto, di questi tempi, possa apparire utopico, quanto piu’ una società è complessa, tanto più può essere governata solo a prezzo di una più avanzata maturazione della coscienza civile, della libera partecipazione al discorso pubblico, dall’ampliamento della rappresentanza democratica.
Percorrere l’altra via è mera illusione. Il punto delicato non è decidere autoritativamente, bensì ottenere condivisione e consenso attorno a determinazione che possono avere efficacia e buon esito solo se fatte proprie e vissute nell’esperienza quotidiana di un popolo.
Domenico Galbiati