A proposito del Centro politico. Osservando la mediocrità del confronto ideale che ci sovrasta, chi s’ispira al Centro, un po’ presuntuosamente, ritiene che alla politica italiana servano apporti di pensiero degni di questo nome, che contengano cioè anche indicazioni di carattere morale.
Il Centro è quell’area politica che non considera il popolo come un soggetto monolitico, identitario di per sé, dotato di una sua supremazia ontologica che gli proviene dalla sovranità, destinato a ricevere passivamente le prestazioni pubbliche. Davanti a questo limitato orizzonte di valori e di funzioni, la politica non servirebbe perché sarebbe sufficiente la razionalità di adeguati apparati burocratici efficienti.
Chi afferma pomposamente di agire in nome del “popolo” è, invece, su questa strada e, con la pretesa di voler rappresentare tutto, il più delle volte finisce per rappresentare niente o nessuno. Il significato spregiativo che ha assunto l’espressione “populismo” viene da qui.
Meglio sarebbe dichiarare di voler rappresentare la società, la comunità o le comunità, dove per società e comunità s’intende l’insieme dei singoli e delle formazioni sociali: la ricchezza di un popolo, l’insieme delle sue componenti libere, l’insieme delle sue articolazioni economiche e culturali.
Nell’intendimento di rappresentare il popolo storicamente si sono prodotti gli esiti più disparati. Hanno avuto origine anche il nazismo e il comunismo, perché il concetto di popolo “è un entità che si crea”, si costruisce. E si costruisce in base ai fini che s’intendono perseguire. Che cosa sono “Volksgeist” (spirito del popolo) e “Volksgeschichte” (storia del popolo), se non formule evocative, storicamente datate, di entità il più delle volte astratte, inesistenti, cui si ricorre per attribuire a una popolazione amorfa un’identità collettiva?
Il Centro politico, senza marginalizzare, anzi valorizzando il sentimento di Patria e di Nazione, dà valore soprattutto ad altre componenti di cui è ricca la società: le formazioni sociali. Se è sull’idea di popolo e di nazione che si sono costruite talvolta alcune forme di autoritarismo, la scelta ideologica in favore delle formazioni sociali assolve la funzione opposta: quella di dare valore al pluralismo, alle diversità, alle libertà, nello specifico intento di salvaguardare la democrazia.
Sulla base di questa premessa “ideologica” vale la pena tornare sul tema dei diritti cui ho fatto cenno qualche giorno fa.
L’art. 2 della Costituzione non evoca soltanto la concezione liberale dei diritti individuali. Non contiene soltanto formulazioni difensive, di garanzia, nell’intento di affermare la priorità del singolo sullo Stato, ma può aprire ampi spazi di libertà in altre direzioni (Barbera). Non a caso, fa riferimento ai doveri di solidarietà, sul presupposto che, come afferma Duguit, si hanno maggiori libertà se ci sono maggiori dosi di solidarietà, cioè se “debitore” di libertà non è soltanto lo Stato, ma un insieme di soggetti pubblici e privati: le formazioni sociali appunto.
In questa direzione è orientato anche l’art. 29 della Costituzione italiana, ad esempio, quando attesta che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Con questa formulazione si conferisce alla famiglia, non ai singoli suoi componenti, una configurazione giuridica potenzialmente parificata a quella riconosciuta al singolo, testimoniando così l’esistenza, anche nel nostro ordinamento, di situazioni e soggettività non soltanto singolari o individuali, ma anche collettive, cui poter attribuire propri diritti “collettivi”, a vantaggio allo stesso tempo del singolo, dei gruppi o di singoli componenti dei gruppi. Non è questa una lettura potenzialmente rivoluzionaria della Costituzione, estensibile ad altri campi, su cui sarebbe utile conoscere gli orientamenti di tutte le forze politiche?
Guido Guidi