Al disegno irricevibile e sghembo di revisione costituzionale avanzato, nel segno del “premierato”, dal governissimo di Giorgia Meloni, almeno un merito va riconosciuto. Ci costringe, in modo brusco ed accelerando i tempi di questo inevitabile snodo, ad affrontare una questione che aleggia sul futuro delle società occidentali, sia in ordine ai loro ordinamenti istituzionali interni, sia sul piano delle relazioni tra Stati.
Detto altrimenti: siamo prossimi ad un bivio e dobbiamo decidere quale cammino intraprendere. Da una parte, c’è la strada della “democrazia diretta” – come la destra, adottando un artificio dialettico, chiama l’ indirizzo “autoritario” che le sta a cuore, come momento essenziale della sua identità – dall’altra. i tornanti scivolosi ed impervi di una democrazia rappresentativa e “parlamentare” più ricca, più partecipata, più adatta a decidere ed a domare la straordinaria complessità del tempo “post-moderno”.
Una democrazia che viva dentro e fuori il “palazzo”, attraverso un discorso pubblico coinvolgente che, nel segno del “pensare politicamente”, chiami ogni cittadino all’ assunzione consapevole e critica di responsabilità personale. Se riconosciamo che la storia, per quanto ritorni incessantemente sui sanguinosi orrori che sempre hanno contrassegnato il suo decorso, sia mossa da una evolutività intrinseca che, pur con immane fatica, la sospinge verso una crescente consapevolezza della dignità umana, dobbiamo chiederci a che punto siamo di questo cammino. O ci rassegniamo nostalgicamente a regredire verso forme che eufemisticamente chiamiamo “autocratiche”, fondate sull’ accentramento e la personalizzazione del potere, sostanzialmente secondo la logica di un “blocco d’ ordine” che pretenda di strumentalizzare, piegandola ai suoi fini, anche la religione oppure accettiamo la sfida del percorso alternativo.
Sta a noi decidere se accomodarci nelle pieghe grigie di una cultura politica che la storia ha già condannato oppure osare la sfida di una responsabilità, anzitutto personale e, nel contempo, collettiva, che coltivi la speranza di una convivenza civile via via più matura, nel cui alveo la libertà della persona, la sua originaria ed insopprimibile dignità trovi piena espressione anche sul piano della vita civile.
Oggi, commenti, analisi, prese di posizione si vanno accavallando sopra la proposta avanzata da Giorgia Meloni. Il rischio, mentre ben altre questioni urgono sia sul piano interno che a livello internazionale, è che ne nasca una valanga di argomenti destinata ad accompagnarci fino al presumibile referendum. Intrappolando, per un verso, gli “addetti ai lavori”, in senso lato, politici, uomini di cultura, osservatori e giornalisti, mondo accademico, forse sociali e categorie economiche, in una spirale di più o meno dotte dissertazioni che sicuramente vanno fatte ed argomentate, ma senza con questo concedere dignità culturale ad una proposta che non la merita. Ed alla quale è necessario oppure un netto, chiaro, esplicito diniego, senza lasciarsi irretire in una giostra di emendamenti che, in nessun modo, potrebbero migliorare un disegno di legge che nasce storto ed, anzi, finirebbe per concedergli una qualche legittimazione.
Non a caso, autorevoli esponenti di una maggioranza che ha fin qui umiliato il Parlamento, ne riscoprono la funzione e sostengono – bontà loro – che il testo del disegno di legge di revisione costituzionale potrà essere migliorato, appunto, nel confronto politico parlamentare. Una volta tanto, in modo suadente, anziché lo scontro frontale, si cerca un “appeasement” dal quale – una volta tanto – sarebbe bene tenersi lontani.
Per altro verso, corriamo il rischio che, attorno al nocciolo della questione, si formi una crosta impenetrabile per il comune cittadino, soprattutto in quella vastissima platea dell’ astensionismo che già mostra insofferenza per una politica che avverte lontana, indifferente, incapace di fornire una soluzione alle sofferenze del suo vissuto quotidiano.
Bisogna, dunque, andare al momento sostanziale del tema, che è – e qui, infatti, sta il punto – di ordine prettamente politico e non solo di carattere tecnico-istituzionale.
Se si perde di vista questa preminenza nodale si rischia di non capire il tutto e di farsi imprigionare nella strategia di un partito sostanzialmente di matrice post-fascista, che cerca, non solo e del tutto legittimamente, di creare le condizioni per governare l’ Italia ben oltre la corrente legislatura, ma soprattutto di stabilire nel Paese una sorta di egemonia culturale, che vada oltre il dato prettamente politico -istituzionale ed invada i riferimenti valoriali, le categorie interpretative, i sentimenti verso cui orientare la collettività nazionale.
Il “premierato”, per un verso, blinda il sistema, cucendolo a misura su Giorgia Meloni, per altro intende, appunto, spingere il nostro ordinamento istituzionale verso una postura che richiami – quasi vendicandone la memoria, a dispetto della Costituzione repubblicana – quella cultura autoritaria in cui affondano le radici di una forza politica che vanta le ascendenze storiche che conosciamo.
Domenico Galbiati