Guido Bodrato è tornato nuovamente sul Caso Moro per rimettere a posto un pezzo di verità ( CLICCA QUI ) che ogni tanto viene scomposto da chi ha interesse a riproporre la tesi secondo la quale il rapimento e l’uccisione del Presidente del consiglio nazionale Dc fu più il frutto di una cospirazione politica, interna e internazionale, piuttosto che da inquadrarsi nella folle strategia delle Brigate Rosse.
E’ evidente che tutti i fatti pubblici, quali ne siano la causa e l’origine, si prestano poi all’utilizzazione da parte di quanti hanno proprie strategie e finalità da perseguire. Che l’intero fenomeno del terrorismo, rosso o nero, fosse soggetto ad infiltrazioni di vario genere e, quindi, si prestasse ad essere utilizzato da altri è fuor di dubbio. Basta ragionare sulle connessioni, ad esempio, dei gruppi terroristici con la criminalità organizzata, a sua volta adoperata in taluni casi per operazioni di bassa manovalanza, com’è stato con la Banda della Magliana o le vicende Sindona Calvi, ma anche per altre di ben diverso spessore. Vedasi su tutto gli omicidi Falcone Borsellino del 1992 e gli attentati organizzati a Roma e Firenze nel biennio ’92 ’93 che contribuirono a creare il clima destinato a portare alla fine della Prima repubblica.
Eppure, secondo alcuni studiosi delle lettere scritte nel carcere brigatista, è lo stesso Aldo Moro a far sapere di essere vittima dei terroristi e non di qualcun altro. Moro scrive:” mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. L’uso di quell’incontrollato è interpretato come il convincimento cui era giunto il prigioniero che ben poco dipendesse se non dall’esclusiva volontà dei brigatisti.
Vissi la vicenda Moro da redattore parlamentare e nel pieno della frequentazione quotidiana con Giovanni Galloni di cui Bodrato ricorda alcune riflessioni. Ebbi così modo di seguire il grande impegno profuso da Giovanni, ma anche quello di tutto il gruppo dirigente Dc, in cui Bodrato svolgeva un ruolo davvero significativo, per salvare la vita di Aldo Moro. Il loro era un atteggiamento del tutto diverso da quello rappresentato da una certa stampa e da quanti che, solo da una precisa data in poi, cominciarono a contestare la linea della cosiddetta “fermezza”, molto più accentuata, e sbandierata, tra i comunisti rispetto a quanto non lo fosse tra i democristiani.
Da quel momento in poi, non si attendeva altro che la Dc “cedesse” ai terroristi per crocifiggerla e rimproverarla di mancanza di senso dello Stato. I morti della strage di Via Fani, capitanati dal maresciallo Leonardi, pesavano. Diverse vulgate si mischiarono tra di loro senza alcuna logicità per raffigurare un quadro secondo cui la Dc avrebbe voluto salvare Moro a ogni costo e, al tempo stesso, lo lasciava cinicamente morire.
Elemento non indifferente da considerare è che i drammatici 56 giorni della cattività di Moro erano ancora lontani dal delitto di Guido Rossa avvenuto solo nel successivo gennaio 1979. Finalmente, a seguito di questo altrettanto assurdo delitto, anche l’intera base del Pc e la stragrande maggioranza della sinistra italiana capirono l’insostenibilità della tesi “Né con lo Stato, né con le Brigate rosse”, richiamata da Guido Bodrato. Se il vertice di Botteghe Oscure aveva da un pezzo ben chiaro come il brigatismo costituisse una minaccia anche per la sinistra, ampie aree della sottostante struttura del Pci e del mondo operaio consideravano ancora i componenti delle Br “compagni che sbagliavano”.
Oggi provano ad avere buon gioco le ricostruzioni di chi vuol vedere tutte quelle vicende come se fossero appiattite dalle focali di un potente teleobiettivo. Il cosiddetto fronte della “trattativa” nacque, in realtà, e improvvisamente, solo il 20 aprile, circa un mese dopo il sanguinoso evento di Via Fani. Solamente allora il Psi fece ufficialmente propria la precedente richiesta di Lotta Continua, sottoscritta pure da numerosi intellettuali cattolici, di avviare una negoziazione. La Cei, intanto, si era già mossa con molto anticipo seguendo un’ottica esclusivamente umanitaria.
Credo che tra i socialisti vi fosse pure chi era animato da un sincero senso di pietà umana per Aldo Moro. Del resto, il suo sequestro aveva avuto un antecedente importate in casa Psi, con il rapimento del figlio di Francesco De Martino, tenuto in cattività per 40 giorni a partire dal 5 aprile dell’anno precedente. Il leader Dc fu particolarmente vicino a De Martino, alla sua famiglia e al suo partito. A un certo punto, però, le prese di posizione d’impronta umanitaria da parte dei socialisti schierati a favore della “trattativa”, che il loro grande giurista Vassalli vedeva concretizzabile con uno scambio di “prigionieri”, cominciarono a rivelarsi in realtà parte di una vera e propria strategia politica. Così, chiesi a Giovanni Galloni cosa ne pensasse e la sua risposta mi agghiacciò: “Sanno che tanto uccideranno Aldo Moro”.
Ora, non sono in grado di ricordare la data esatta in cui Giovanni mi fece quell’affermazione e, quindi, se la sua valutazione fosse il frutto di qualcosa di esplicitato o da lui intuito nel corso dei colloqui avuti con Signorile, cui si riferisce Guido Bodrato, e con altri esponenti socialisti. In ogni caso, la dice lunga su come il protrarsi del sequestro fosse diventato niente di più che uno dei tanti elementi che concorrevano alla competizione tra i partiti, in qualche modo sospesa dopo il 16 marzo per circa un mese.
E’ in quel periodo che il caso Moro si amplia oltre gli aspetti che riguardavano la vicenda personale dello statista. Nonostante le tante dichiarazioni ufficiali, la questione dell’essere umano Aldo Moro diviene del tutto secondaria, se non addirittura ininfluente agli occhi di alcuni. Andava persino oltre quella del brigatismo in sé. Così, altre dinamiche presero corpo, di natura nazionale e internazionale.
Sempre da Giovanni Galloni raccolsi una perplessità, una mattina successiva alla sua partecipazione all’unità di crisi che in maniera, più o meno informale, Francesco Cossiga aveva allestito al Viminale. Probabilmente, si trattava di uno dei tanti gruppi attivati, con livelli diversi di accesso alle notizie rese disponibili. Comunque, Giovanni mi parlò della presenza di “gente strana”. Capii meglio il significato di quell’affermazione quando per il Tg1 cominciai a seguire i lavori della Commissione d’inchiesta sulla P2 insediata nel gennaio 1981.
In realtà, taluni “giochi” sul caso Moro erano cominciati subito lo stesso giorno del 16 marzo 1978. Ricordo che quella stessa mattina, mentre mi trovavo nel Transatlantico di Montecitorio, mi raggiunse agitatissima una collega dell’Agenzia Asca alla ricerca di consigli da suggerire al marito svegliato dai colpi d’arma da fuoco esplosi contro la scorta di Moro in Via Fani. Egli abitava proprio sopra l’angolo in cui venne portato a segno il rapimento. L’uomo aveva istintivamente preso una macchina fotografica e fatto numerosi scatti, credo l’intero rullino, della scena della strage. Al suggerimento di andare subito alla Procura della Repubblica, aggiunsi anche che sarebbe stato il caso di farsi assicurare il mantenimento della riservatezza e che il suo nome non fosse dato in pasto alla stampa e ai terroristi.
Ebbene, poche ore dopo la Procura emise un comunicato con il quale veniva invece resa nota l’esistenza del rullino fotografico. Il marito della mia collega pensò bene di rifugiarsi in un luogo segreto fuori Roma, senza ovviamente che gli venisse garantita alcuna protezione. Ho poi letto che quel rullino risultò molto presto smarrito e alcuni commenti secondo cui la rivelazione della sua esistenza fosse stata utile per informare qualcuno sul fatto che avrebbe potuto essere stato fotografato sul luogo della strage e che fosse il caso di sparire dalla circolazione. Sarà vero? Non avendo una mentalità complottistica mi limito a registrare i fatti e a lasciare a chi è più competente ogni valutazione sul caso.
Fu l’attacco di Via Fani lo sbocco di una trama orchestrata al di fuori del brigatismo rosso? Oppure, è più sostenibile che un fatto tutto esclusivamente originato all’interno di quella follia venne poi utilizzato quale elemento della competizione in essere tra i partiti ? Secondo alcuni, il sequestro di Aldo Moro venne preferito a quello di Giulio Andreotti o di Enrico Berlinguer perché l’esponente Dc e la sua scorta non utilizzavano macchine blindate e perché, terrorizzato com’era anche solo dal vedere delle armi, Moro aveva convinto il maresciallo Leonardi a far tenere i mitra in dotazione ai suoi uomini di scorta nel bagagliaio delle auto invece che a portata di mano.
Riguardo alla teoria complottistica di natura internazionale, ricordo il colloquio che ebbi nel pieno dei 56 giorni con un parlamentare del Pci vicinissimo a Enrico Berlinguer perché con lui era stato per anni alla guida della Federazione internazionale della gioventù democratica originata dai sovietici e con sede a Budapest. La mia domanda era stata diretta: “perché americani, russi, israeliani, britannici, tedeschi e compagnia cantando non intervengono?”. La sua risposta fu altrettanto decisa: “perchè quando tutti tacciono, vuol dire che sono tutti d’accordo”. Questo, forse, spiega perché con molta freddezza e determinazione, Berlinguer volle terminare l’esperienza che aveva definito “compromesso storico” e cominciò a parlare di “questione morale”. Doveva chiudere un’intera fase. Si era convinto che il messaggio fosse chiaro: non s’ha da fare. Poi le vicende politiche italiane presero un altro corso, così come quelle del terrorismo brigatista, fino alla caduta del Muro di Berlino.
Spezzoni di ricordi. Sparsi pezzetti di un puzzle molto più complicato e che, quindi, non consentono il suo completamento a un osservatore assolutamente marginale. Ma una cosa è certa: sono d’accordo con Bodrato quando riporta le cose nella loro giusta collocazione e ribadisce cioè che il caso Moro è da vedere proprio all’interno della troppo lunga, folle stagione del brigatismo italiano. Il resto è … il resto.
Giancarlo Infante