È inutile prendere sul serio il dibattito in corso sull’autonomia differenziata. Ciò, perché nessuno dei contendenti dice la verità. Non la dice il Governo, diviso radicalmente al suo interno: FdI e FI semplicemente non vogliono l’autonomia differenziata.

Non la dice Calderoli: se l’autonomia è legata alla definizione dei LEP, di cui si discute fin dal 1992, campa cavallo. Non la dicono le forze dell’opposizione.

Eppure anche i sassi sanno che l’autonomia differenziata è conseguenza del Titolo V del 2001, che la sinistra ha voluto ardentemente, così come un corollario discende dal teorema. L’appello referendario alla salvezza dell’Italia risulta patetico e in malafede.

È più seria la domanda: l’attuale assetto istituzionale dello Stato favorisce lo sviluppo della Nazione? La risposta è no. Pertanto, progettarne uno nuovo è il compito essenziale di una politica, degna del proprio nome.

Saltiamo qui a piè pari la lunga storia del regionalismo e partiamo dal Titolo V della Costituzione del 1948. L’istituto-Regione nasce al punto di compromesso di due opposti progetti politici, piegati ciascuno dalla guerra fredda.

Prima del ’48 i democristiano-sturziani vogliono le Regioni, le sinistre no. Se si deve conquistare il potere e lo Stato, meglio trovarlo tutto concentrato in un solo punto, non disperso in tante Regioni.

Ma nel ’48 i fini si invertono: la DC vittoriosa diventa centralista per evitare la costituzione di Repubbliche rosse nel Centro-Nord, il PCI diventa regionalista per la ragione opposta. Donde il ritardo ventennale dell’attuazione del Titolo V.

Quando le Regioni si installarono nel giugno del 1970, le formule del centrismo e del centro-sinistra si erano già consumate., mentre il PCI stava diventando un convitato di pietra sempre più ingombrante.

Come ricorda un antico liberale P. Muccio de Quattro, citando Francesco Cossiga, le Regioni, “furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria”.

Così le Regioni sono diventate luoghi di riproduzione di un nuovo strato del ceto politico-partitico e, en passant, di un nuovo cespite di finanziamento indiretto dei partiti. L’istituzione delle Regioni ha contribuito a sanare le fratture storiche del Paese? Non pare.

Dal regionalismo ordinario al regionalismo differenziato

Nel corso degli anni ’90, con la crisi del sistema politico, si tentò di ripensarle. Accadde nella Bicamerale istituita con Legge costituzionale 1/1997 del 24 gennaio, con il compito di elaborare progetti “in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie”.

Ma già nella seduta dell’11 dicembre 1997 l’Assessore agli Affari istituzionali dell’Emilia-Romagna Luigi Mariucci denunciava la contraddizione tra un messaggio di federalismo virtuale e un messaggio autonomistico estremo: “Ne è derivato un disegno che per molti aspetti assomiglia più che altro ad un quadro di Arcimboldo”, nel quale si mescolano patate e melanzane.

Fallita ufficialmente la Bicamerale nel Giugno del 1998, non cessava però la pressione devoluzionista, ai limiti del secessionismo, della Lega Nord. E così nel 2001 il centro-sinistra si approvò addosso il nuovo Titolo V, con l’idea di agganciare al proprio carro la Lega di Bossi e vincere le elezioni del 2001.

Nacque così il “regionalismo differenziato”, che nei suoi primi tentativi di esercizio delle competenze condivise con lo Stato scatenò più di mille cause di fronte alla Corte costituzionale e intensificò le pulsioni politico-referendarie verso ulteriori autonomie regionali.

Da ultimo, 23 gennaio scorso 2024 il Senato ha approvato il Disegno di Legge n. 615, presentato dal Ministro Roberto Calderoli e intitolato “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

All’analisi del DdL www.santalessandro.org ha dedicato un articolo il 30 gennaio del 2024: “Alla fine della favola, in assenza di criteri oggettivi per la contrattazione tra Stato e Regioni, ciò che resta decisivo è la contrattazione tutta politica, basata su criteri di consenso elettorale e su mutevoli rapporti di forza”.

Il federalismo necessario della sussidiarietà

Se usciamo dal retrobottega della politica per aprire gli occhi sul Paese reale, il Paese è questo: il Nord è diventato parte integrante di un’area produttiva che si estende ai due lati delle Alpi; la fascia adriatica, il Sud e le Isole dispongono di potenzialità di autosviluppo agro-industriale e di connessioni commerciali con le sponde opposte del Mediterraneo, dai Balcani all’Africa.

Questo assetto condiziona le dinamiche industriali, i trasporti, l’urbanistica, le migrazioni in entrata e in uscita, le demografia, la posa delle Reti. Il “glocalismo dello sviluppo” è diventato la cifra di molte aree “interne” del Paese: abitare in una Valle bergamasca o nel Salento e lavorare per Pasadena o per Francoforte.

Esistono “naturali” differenze socio-economiche e culturali tra Nord-Sud, città-campagna, pianure e aree interne montane. Dalla storia del Paese arrivano fratture antropologiche più lunghe e più profonde, che le classi dirigenti non sono state capaci di sanare e che, forse, non sono sanabili, se non nella lunga durata, che, va detto, è già durata piuttosto a lungo.

Rispetto a questo Paese reale, toccherebbe alle classi dirigenti, innanzitutto politiche, disegnare la trama istituzionale e amministrativa che ne favorisca lo sviluppo e la civilizzazione. Ma la filosofia centralista che muove il ceto politico nazionale è un ostacolo ad un progetto istituzionale di sviluppo.

Così il centralismo statalistico al Nord agisce da freno, al Sud copre assistenzialmente la pigrizia del sottosviluppo. Si tratta di un centralismo tutto partitico-politico, la cui realizzazione effettuale, a geometria variabile, è decisa dalla contrattazione politica, sia interna alla maggioranza di governo sia tra maggioranza e opposizione. A norma dello stesso DdL Calderoli, i finanziamenti delle autonomie sono stabiliti “di anno in anno”, a contratto. Si tratta di un centralismo arbitrario e sbrindellato.

Se ne deve concludere che l’attuale assetto istituzionale – governo debole, bicameralismo perfetto, regionalismo ordinario e rafforzato, magistratura esondante – costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino. Le Istituzioni congiurano contro il futuro del Paese.

Serve un assetto federale, fondato sulla sussidiarietà verticale e orizzontale. Il federalismo ha due caratteristiche essenziali, una istituzionale e una etica. Quella istituzionale: l’autonomia di ogni singolo livello – comunale, provinciale, regionale, nazionale – è fondata sulla responsabilità politica di prelievo fiscale e di spesa. La sussidiarietà verticale è il quadro migliore per lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale, nella quale la società civile può fiorire.

La base etica del federalismo è il principio di responsabilità, del merito, delle opere. E le diseguaglianze che naturalmente lo sviluppo sottoproduce? Nessuno deve essere lasciato indietro, a condizione che cammini con le sue gambe. Nessun altro può camminare al tuo posto. Questa è l’etica della responsabilità.

Giovanni Cominelli

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