Quella che segue la prima parte dell’intervento sul Mes a firma di Umberto Baldocchi (CLICCA QUI)
All’ origine del Mes: un’ emergenza davvero effettiva?
Ma davvero di una emergenza non prevedibile e non prevenibile si è trattato, quando si è deciso di mettere mano al MES ? In realtà, nel decennio dell’ “incanto europeo” ( 1999/2009) erano già ben note ai dirigenti europei le carenze tecniche dell’ unione monetaria che si era realizzata. Si sapeva che l’ unione monetaria avrebbe avuto bisogno di progressi significativi nell’unione economica, progressi che, per ora, non c’erano. Forse qualcuno si illudeva anche che la stessa moneta avrebbe creato da sola le condizioni macroeconomiche necessarie alla sua sopravvivenza. Ma si sapeva benissimo anche che, accanto ai vantaggi, l’ unione monetaria configurava seri problemi che andavano prevenuti. Per fare solo un esempio, il mix tra cambio valutario fisso (effetto della moneta comune) e libertà assoluta di circolazione dei capitali introduceva un fortissimo vincolo alle politiche monetarie e fiscali , dato che ogni scelta di politica economica interna poteva essere neutralizzata dalla dinamica finanziaria dei mercati internazionali, che agiva col noto meccanismo dello spread ( differenziale dei titoli del debito pubblico rispetto ai titoli tedeschi).
Oltre a questo rischio economico ( non poter attivare le politiche economiche necessarie) vi era poi un ben più direttamente percepibile rischio finanziario, prima inesistente. Infatti la eventuale crescita degli interessi sui titoli del debito- e cioè il loro deprezzamento sul mercato- e il mancato riacquisto dei titoli potevano avviare quindi un circolo vizioso che avrebbe fatto schizzare alle stelle un debito pubblico, senza che vi fossero strumenti capaci di contrastarlo a disposizione dei singoli Stati. Gli Stati singoli, che un tempo ricorrevano alla svalutazione monetaria, ora sarebbero stati costretti, per fronteggiare le emergenze, a ricorrere al”bancomat” della voce trasferimenti netti del bilancio statale, “dirottando” molto semplicemente le risorse destinate ai pensionamenti e alla spesa sociale verso il loro utilizzo come titoli di debito ( ciò che è avvenuto in Italia nel 2011 col dilazionamento improvviso dei pensionamenti). Oppure, nel medio periodo, gli Stati con problemi di debito pubblico potevano ricorrere ad una “silenziosa” ma efficace “svalutazione interna”, cioè al taglio di prezzi o, molto più “semplicemente”, al taglio dei salari, con effetti negativi cumulativi su debito pubblico, mercato interno e capacità competitiva, ma anche “invisibili” perché dilazionati nel tempo ( questo spiega l’ “affondamento” graduale, ma progressivo e sistematico, dei salari italiani, a partire dal 2000, caso eccezionale nel contesto europeo ).
Ma nel “decennio dorato” dell’euro nessuno pensò a queste eventualità, come nemmeno si provvide ad eliminare e neppure a prendere in considerazione i rischi provenienti dalla mancata trasparenza dei debiti di alcuni Stati, quelli che avevano alterato i bilanci statali per avere accesso all’area euro, come la Grecia. Il Consiglio dell’ Unione rigettò infatti la proposta di Regolamento della Commissione per consentire a Eurostat di ispezionare i bilanci degli Stati. La continuità della crescita economica, i bassi tassi di interesse, la bassa inflazione aiutarono a rimuovere il problema. La tempesta si andava preparando, le nuvole minacciose erano ben visibili, ma nessuno pensava a ripararsi per tempo.
Una volta emerso il problema del debito greco ( detenuto peraltro da banche francesi e tedesche), non ci sarebbero state più alternative alla soluzione emergenziale che rimaneva l’unica possibile. Non c’era più tempo per soluzioni sistemiche. Tanto più che secondo i trattati, a differenza degli altri sistemi classici fondati su banche centrali di emissione, si escludeva ogni finanziamento della spesa pubblica dei paesi aderenti. Come intervenire allora sul disastro di un debito pubblico che coinvolgeva banche di grandi nazioni ?
Niente era stato previsto per crisi del genere. In effetti, l’ art. 122 del TFUE prevedeva sì “assistenza finanziaria”, ma soltanto «in caso di difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia». Si cercò allora di porre rimedio a questa carenza promuovendo, entro la cornice del diritto euro-unitario, un Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF introdotto con Regolamento (UE) n. 407/2010 dell’11 maggio 2010. Era però un meccanismo assolutamente impotente, dato che esso si alimentava del miserrimo bilancio dell’Unione, per l’importo, ridicolo rispetto alle esigenze, di 60 miliardi di euro. Si apriva così la strada ai trattati di diritto internazionale, che non rientrano nel diritto euro-unitario. Era la via dei “trattati paralleli” che significava anche ricorso alla soluzione intergovernativa, estranea alle procedure euro unitarie e funzionale a dare il ruolo centrale ai governi degli Stati.
Lo strumento cui si ricorse fu il Fondo europeo di stabilità finanziaria, o EFSF ( European Financial Stability System), sigla che definisce una società anonima lussemburghese con il contributo, come azionisti, degli Stati dell’Eurozona, istituito per iniziativa del Consiglio Ecofin del 9 maggio 2010 e realizzato con la dichiarazione dell’Eurogruppo del 7 giugno 2010. Ma evidentemente anche questo non bastava ancora per “rassicurare i mercati”.
Un meccanismo “salva-stati” della struttura simmetrica
E’ a questo punto che si dette vita alla nuova istituzione finanziaria internazionale, il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), creato anch’esso con un accordo tra una parte degli Stati dell’ UE, fuori dal diritto euro unitario, con una iniziativa armonizzata col diritto dell’ UE dalla revisione dell’art. 136 TFUE. Una istituzione operativa dall’ ottobre 2012, che nasceva con una “potenza di fuoco” di 700 miliardi di euro e che aveva una potenza credibile per scoraggiare la speculazione e affrontare il problema.
E’ l’istituzione nota anche come “fondo salva-Stati” con una definizione impropria, ma significativa, che ben evidenzia il rovesciamento della condizione strutturale classica. Lo Stato, come un qualsiasi soggetto privato, può fare fallimento, non è più una entità di cui si postula una esistenza indefinita, che non può far fallimento, per motivi attinenti la liquidità, perché il debito può essere sempre monetizzato. Ora non è più così.
La definizione di “fondo salva-Stati” è poi significativa anche perché mette in luce perfettamente il carattere nazio-centrico ( oltre che emergenziale) dell’approccio al problema della stabilità finanziaria, considerata una variabile dipendente dai comportamenti ( virtuosi o viziosi dei singoli Stati) e non anche dalle carenze o criticità connesse al sistema stesso, che in tal modo non viene mai rimesso in discussione. Il think tank di Jacques Delors, Notre Europe, notò immediatamente questa “tara originaria” insita nella scelta del MES, come meccanismo di garanzia della solidarietà finanziaria dell’ Eurozona.
“ Trattando il problema del debito dell’ Eurozona come una serie di distinti problemi riguardanti I diversi paesi dell’ UEM , i leaders europei non sono riusciti a comprendere le radici sistemiche di questa crisi. In effetti i problemi del debito affrontati dai vari paesi dell’ UEM durante questa crisi sono in parte correlati a caratteristiche dell’ Eurozona che hanno l’effetto indesiderato di rendere i paesi UEM più fragili degli altri di fronte a una crisi finanziaria globale” ( S. Fernandes, E. Rubio, Solidarity ecc., p. 28).
Peraltro il carattere nazio-centrico del MES condizionava indiscutibilmente anche il meccanismo decisionale attivato come il suo quadro giuridico di operatività.
Il meccanismo decisionale, quello attraverso cui il Board of Governors, cioè il Consiglio dei Governatori del MES, che poi sono i diciannove ministri delle finanze ( e/o dell’economia) dell’ Eurozona, decidono la concessione di una linea di credito precauzionale condizionale (Precautionary Conditioned Credit Line, PCCL) oppure una linea di credito soggetta a condizioni rafforzate (Enhanced Conditions Credit Line, ECCL) allo stato in difficoltà, è un meccanismo che opera in modo decisamente asimmetrico. Non opera certo come una banca centrale che agisca come prestatore di ultima istanza.
Le decisioni del Board o del Consiglio di Amministrazione non sono assunte all’unanimità, secondo quello che è il principio tipico delle organizzazioni internazionali (il che conferirebbe ad ogni Stato un potere di veto) ma, a norma dell’ art. 4 del Trattato istitutivo, sono assunte di comune accordo ( cioè con l’unanimità dei membri che partecipano alla votazione, senza che le astensioni ostino all’unanimità stessa), a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice e sempre con un quorum di presenze corrispondente almeno ai due terzi dei voti. In realtà, nelle decisioni più importanti, come sono quelle in cui si attiva una procedura di urgenza, si richiede la maggioranza qualificata dell’ 85% dei voti.
Naturalmente gli Stati singoli dell’ Eurozona dispongono di un peso molto diverso nel voto, come è nel funzionamento delle istituzioni finanziarie internazionali. Si tratta di voti ponderati sulla partecipazione al capitale complessivo ( la quota del singolo Stato essendo quindi legata ad un parametro che tiene presente popolazione e PIL pro-capite).
Il principio di maggioranza semplice che, a prima vista, risolverebbe i problemi sbloccando la procedura decisionale ed evitando compromessi faticosi ed accordi complessi, renderebbe molto difficile la legittimazione delle decisioni. Per questo il voto ponderato, che peraltro rende inevitabile una forte dissimmetria tra gli Stati e, nel nostro caso, una dissimmetria che riflette soprattutto il peso finanziario più che quello demografico dei singoli Stati.
Lo squilibrio di “peso” tra gli Stati è evidentemente notevole. La Germania ad es. è titolare del 26,89% delle quote, contro il 20.20% della Francia, del 17.75 %dell’ Italia lo 0,8 %dell’ Estonia, lo 0,19% di Cipro e così via. Se si considera che per gli atti di ordinaria amministrazione è necessaria una maggioranza qualificata dell’ 80% , ma soprattutto che per l’ assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà, nel caso di una votazione di urgenza, è necessaria una maggioranza qualificata dell’ 85%, se ne può dedurre che in quest’ultimo caso bastano sei Stati, su un totale di diciannove, per assumere la decisione finale, la quale può invece essere bloccata anche da uno soltanto dei tre Stati più “pesanti”, da Germania, Francia o Italia. Negli atti di ordinaria amministrazione poi Germania o Francia da sole dispongono di fatto di un diritto di veto, configurando di fatto la governance del MES come una governance oligarchica dipendente dal potere dell’una o dell’altra “potenza” europea. E’ evidente che Stati di peso demografico molto diverso non possano avere eguale rappresentanza. ma è chiaro anche che, nel nostro caso, il peso del voto proporzionale alla contribuzione finanziaria- secondo la logica “ one dollar-one vote” tipica della corporate governance o di un “governo della finanza”- , traduce stabilmente le asimmetrie finanziarie in asimmetrie di potere alimentando fonti di squilibri e conflittualità, o generando potenzialmente alleanze e coalizioni contrapposte di Stati.
Nei fatti un gruppo ristrettissimo di Stati è in grado di decidere per altri le condizioni dei prestiti, agendo senza dubbio legittimamente nell’ottica prioritaria di evitare, come naturale, ricadute negative sulle proprie finanze e di consolidare i vantaggi della propria posizione relativa, ma non certo in quella di condividere risorse. Le “condizionalità” indispensabili per la “solidarietà finanziaria” saranno così sicuramente orientate “ad evitare gli effetti spill-over [ o ricadute] delle difficoltà di tali Stati sull’area euro piuttosto che ad offrire loro un aiuto concreto, sbilanciando il sistema a favore degli obiettivi di stabilità rispetto a quelli di solidarietà” (G. Caggiano (a cura di), Integrazione europea e sovranazionalità, Bari, 2018, p. 233: ).
La “solidarietà condizionale” dell’assistenza finanziaria non può infatti conoscere i principi di perequazione delle risorse e di eguaglianza sostanziale, né realizzare una redistribuzione intersoggettiva generalizzata. “La realizzazione di un modello solidaristico, difatti, richiede quale presupposto indefettibile una comunità di soggetti che si reputino pari o che, quantomeno, aspirino tendenzialmente a diventarlo” ( Alessio Scaffidi, La riforma del MES e le persistenti criticità in materia di decision-making, in : Federalismi.it, 11 agosto 2021, p. 10).
Il quadro giuridico di operatività è poi l’altra “criticità” che rileva. Come si è detto, il MES è una istituzione di assistenza finanziaria che svolge attività di diritto privato con finalità pubblicistiche e che, essendo nata per via intergovernativa, non rientra nel quadro giuridico euro-unitario ma in quello del diritto internazionale, anche se col primo si deve raccordare. Si completa così la costruzione degli “ordinamenti paralleli”, che, in un certo senso, duplicano – per sovrapposizione – le istituzioni euro-unitarie e aprono la strada, più che all’integrazione europea a una sua evoluzione “direttoriale,” conferendo peraltro ampi poteri discrezionali all’ “ordinamento parallelo” del MES che opera senza quei vincoli di tutela giurisdizionale effettiva che sarebbero garantiti dalla Carta di Nizza entro il diritto euro-unitario, come attesta il disposto dell’art. 35, comma 1°:
“Nell’interesse del MES, il Presidente del Consiglio dei governatori, i governatori e i governatori supplenti, gli amministratori, gli amministratori supplenti nonché il direttore generale e gli altri membri del personale godono dell’immunità di giurisdizione per gli atti da loro compiuti nell’esercizio ufficiale delle loro funzioni e godono dell’inviolabilità per tutti gli atti scritti e documenti ufficiali redatti”. (Segue)
Umberto Baldocchi