Il dibattito relativo al ruolo politico dei cattolici, nell’attuale contesto bipolare, sembra un fiume carsico, che, per quanto scorra ininterrottamente negli strati profondi del nostro sistema politico-istituzionale, solo quando, qua e là, irrompere in superficie, giunge all’ evidenza del discorso pubblico. E poiché questo succede con frequenza crescente, l’impressione è che tutto ciò non derivi da un’istanza pretestuosa che i cattolici vorrebbero avanzare in ossequio alla loro storia. Bensì segnali una condizione oggettiva, una domanda diffusa, mossa da una carenza di cultura politica che molti avvertono la necessità e l’urgenza di colmare, ben al di là dello stesso mondo cattolico. In altri termini, il venir meno di una presenza politica che si rifaccia alla cultura liberal-democratica e popolare del movimento cattolico è un vulnus per il nostro Paese, prima e più di quanto non sia un problema per i cattolici come tali.
A maggior ragione, infatti, nell’era della complessità, la “moderazione” – purché intesa non come atteggiamento accomodatizio e compiacente, bensì come severo senso della misura – può esprime addirittura una sorta di potenziale rivoluzionario, cioè la capacità di orientare quei processi di trasformazione che, se non guidati, avvengono comunque, di per sé ed a nostro dispetto. Ma su questo torneremo un’altra volta.
Intanto, va detto che il “disagio” dei cattolici che militano nel PD, di cui parla Pierluigi Castagnetti in una recente intervista, il “senso incompiuto”, sempre del Partito Democratico, cui accenna Stefano Folli su “Repubblica”, i cattolici “senza casa” di cui scrive Antonio Polito sul “Corriere”, rientrano, in un certo qual modo, in questo ordine di considerazioni. Peraltro, se si intendesse avanzare su un terreno impervio ed esplorare le possibili forme di una presenza politica rinnovata, che sia in grado di leggere ed interpretare i tempi nuovi in cui ci stiamo inoltrando, secondo una concezione cristiana dell’ uomo, della vita e della storia, sarebbe necessario, anzitutto, tenere fermi alcuni punti cardinali. In carenza dei quali, come succede da troppo tempo, ci si muove in tondo e non si riesce ad intraprendere un nuovo cammino.
In primo luogo, la consapevolezza che la Democrazia Cristiana è stata una “singolarità” della storia, cioè un evento unico ed irripetibile, pertinente al “suo” momento e, dunque, necessariamente contingente, per cui il riassorbimento della cosiddetta “diaspora” lascia il tempo che trova e, di fatto, non porta da nessuna parte.
In secondo luogo, è necessario riconoscere come il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici sia ormai un fatto acquisito ed irreversibile, che, d’altra parte, non va considerato una dissipazione, ma addirittura un arricchimento, nella misura in cui attesta come i cattolici sappiano esercitare la loro personale autonomia di giudizio e, quando accostano la politica, non si lascino irretiti in una postura ideologica.
In terzo luogo, la convinzione che la cultura politica del cattolicesimo democratico e popolare – in quanto, appunto, non ha nulla di ideologico – per sua natura, per la stessa impronta personalista che la caratterizza, è in grado di accostare gli eventi della storia in modo aperto, mantenendo fermi i principi, gli assiomi etici, culturali ed ideali da cui prende le mosse ed apprendendo, nel contempo, induttivamente dal contatto vivo con la realtà. Per questo, è una cultura che non si esaurisce nelle forme contingenti, cui da’ vita nei differenti frangenti storici che è chiamata ad attraversare – dal PPI di Sturzo alla DC di De Gasperi e Moro – ma li trascende e dura nel tempo, pronta a reinterpretare nuove fasi della vicenda umana.
Infine, è tempo che i cattolici superino quella barriera sottile, eppure troppe volte impenetrabile, che separa il cosiddetto ambito “pre-politico” da un impegno espressamente politico, osando anche una nuova forma partitica che va, ovviamente, ripensata a fondo. Questo è il passo che, con la sua forza esigua e nella piena consapevolezza dei suoi limiti, INSIEME ha voluto emblematicamente compiere, evocando un’ autonomia di elaborazione culturale, prima che di schieramento, in un contesto che ci vede alternativi alla sinistra, addirittura schiettamente antitetici alla Meloni ed a Salvini. Del resto – e qui sta il vero nodo della questione – il nostro Paese non ha bisogno di un “partito cattolico”. Ha bisogno di una forza politica di ispirazione cristiana, che è tutt’altra cosa, nella misura in cui deve saper dire e declinare sul piano dell’ azione politica, con linguaggio nuovo ed argomenti pertinenti, a chi viene da altre culture, l’intrinseco valore umano e civile dei valori in cui crediamo. Così da renderli comprensibili, accessibili e fors’anche accattivanti anche per coloro che della vita e della dignità della persona hanno un concetto dissimile dal nostro.
Sturzo e De Gasperi, per quanto fossero a capo di partiti laici ed aconfessionali, nelle condizioni storiche date, necessariamente trovavano nei cattolici il loro riferimento più immediato. Oggi le cose stanno in altro modo.
Votino pure i cattolici come liberamente ritengono – cosa, peraltro, che hanno sempre fatto – ma ciò non lede la legittimità di riproporre agli italiani una visione ed una prospettiva che si rifaccia ai valori che ritroviamo congiuntamente nella Costituzione della Repubblica e nella Dottrina Sociale della Chiesa.
Domenico Galbiati