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Il fatto che l’Italia si sia incamminata verso la consultazione elettorale anticipata del prossimo 25 settembre, più o meno un paio di mesi dopo la nomina del nuovo Presidente della CEI, ha acceso la curiosità e l’ attesa di molti osservatori.
Taluni aspettavano un colpo di barra che orientasse il timone della Chiesa verso una presa di posizione che, di fatto, la rendesse protagonista ed espressamente attiva in ordine all’indirizzo politico della prossima legislatura.
Al contrario il neo Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinal Zuppi, ha, ovviamente, precisato come la Chiesa non intenda dare nessuna indicazione di voto, ma, fedele alla sua vocazione anzitutto pastorale, inviti tutti ad assumere, come linea-guida della propria azione politica, la ricerca del bene comune.
L’ educazione, il lavoro, la famiglia, la pace, il ruolo strategico del “terzo settore” sono i temi e gli impegni che ha richiamato all’attenzione non solo dei credenti. Come già osservato, il pluralismo politico che oggi attraversa il cosiddetto “mondo cattolico” – ammesso che ancora sia legittimo parlarne secondo la genericità
del linguaggio corrente e senza analizzarne meglio la effettiva consistenza – va considerato una dissipazione o piuttosto una potenziale risorsa ed, in ogni caso, una condizione di fatto ormai acquisita e ben difficilmente revocabile?
La fine del collateralismo, il superamento dell’unità politica dei cattolici hanno accompagnato una stagione di trasformazione della cultura e del costume, della stessa composizione sociale del Paese che, soprattutto nella cornice del Concilio, ha assunto i caratteri di un processo di maturazione di una nuova, più diretta e personale responsabilità dei credenti nell’ambito della stessa comunità ecclesiale. E non si può non riconoscere come il pluralismo, cui siamo, appunto, approdati, rechi, a sua volta, il segno positivo di questa evoluzione, per quanto poi vi concorrano altri fattori non sempre altrettanti apprezzabili.
La cosiddetta “diaspora” di cui molti discutono è stata un processo più complesso, da far risalire nel tempo ad una fase ben anteriore all’ eclisse della Democrazia Cristiana. Per quanto, piuttosto, per “diaspora” dovrebbe intendersi un processo di disseminazione dei valori del ceppo originario, presso quella pluralità di ambienti raggiunti dai lembi che se ne staccano. E questo non è avvenuto nel nostro caso. D’ altra parte, poiché, com’è stato più e più volte autorevolmente affermato – e la comunità dei credenti sicuramente condivide tale giudizio – la politica è “la più alta forma di carità”. E quest’ ultima rappresenta la linfa della vita della Chiesa ed il criterio ultimo di giudizio delle nostre azioni. Non è forse opportuno che tale forma di carità – sia che attenga un impegno politico di militanza attiva, sia che si esprima nel momento della semplice partecipazione al voto – venga particolarmente sostenuta, promossa ed accudita nell’ambito della comunità ecclesiale? E’ possibile che quest’ ultima non si limiti ad un’indicazione, se così si può dire, da remoto, che si affidi cioè ad un accorato appello al Bene comune, alla buona volontà di un impegno competente e serio, ad un’ azione diretta alla formazione delle coscienze? Ma si preoccupi – anche nelle sue articolazioni territoriali diocesane o parrocchiali – di prevedere quelli che potremmo chiamare “momenti o luoghi del discernimento”?
Il pluralismo politico dei cattolici oggi non è di per sé un fatto negativo. Risponde alla particolare postura di questo disarticolato momento storico ed, a suo modo, lo interpreta, anziché rattrappirsi isolato in una sua torre d’avorio.
Consente di testare approcci difformi, coerenti con una società aperta, che apprende induttivamente dal contesto in cui vive e procede, talvolta, come se sperimentasse, per prove ed errori, orientamenti in grado di contenere la complessità crescente.
I credenti vivono, devono vivere nel cuore pulsante o nel tumulto, nel rumore di fondo ed incessante di una realtà che muta. Non altrimenti potrebbero proporre modelli della città terrena che rispondano a quei principi essenziali di rispetto della persona e di promozione del valore umano che incarnano la loro vocazione. Il pluralismo non può essere “ad libitum” o abbandonato a sé stesso, ma deve necessariamente interrogarsi ed accettare una verifica incrociata ed argomentata, in un confronto di posizioni, in un rapporto di reciproca spiegazione – o di correzione fraterna ? – tra fedeli che accampano diverse visioni politiche, ma condividono – o almeno così dovrebbe essere – un comune, convinto, condiviso riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa. Senza compromettere la comunità ecclesiale come tale, né esigere abiure, bensì concorrendo ad un accrescimento di capacità critica e di autonomia di giudizio che, con ogni probabilità, oltretutto ridurrebbe la forbice di posizioni divergenti, ma soprattutto darebbe, ad ogni opzione, maggiore dignità, una più attenta consapevolezza delle sue ragioni e, ad un tempo, dei suoi limiti.
Siamo forse sul terreno dell’utopia.
Eppure, se il mondo cattolico sapesse esprimere una più matura comprensione del dato politico, una pur ragionevole difformità delle sue opzioni potrebbe rappresentare un concorso non indifferente per una più avvertita coscienza civile e democratica del Paese.
Domenico Galbiati