I segnali dell’imminente uscita dalla pandemia sono sempre più evidenti e già si affollano le analisi sui futuri assestamenti del sistema.
Le previsioni sono unanimi nel ritenere imminente una decisa ripresa di produzione, investimenti e consumi e quindi una convincente crescita del Pil: una tendenza che sarà rafforzata dall’avvio del Piano nazionale di ripresa (Pnrr) favorito dall’accesso al Recovery Fund.
Se tutto ciò sarà confermato, e lo sapremo presto, anche i problemi vecchi e nuovi del nostro sistema economico potranno essere affrontati nel quadro di una relativa stabilità.
Tra i problemi vecchi quello che esce decisamente aggravato dalla vicenda pandemica è certamente la dimensione del debito pubblico, esploso per noi come per tutti i Paesi, compresi più virtuosi. Per fare fronte alla crisi sanitaria, sociale ed economica sono infatti stati travolti non solo i parametri del Patto di Stabilità ma anche tutti i propositi di contenimento tendenziale del debito da parte dei governi.
Mai come in questa occasione anche i mercati, solitamente severi e occhiuti, concentrano la attenzione più sulla puntualità dei rimborsi e dei pagamenti degli interessi che sulla crescita del debito e sul rapporto con il Pil.
Soccorre peraltro ancor oggi la politica della BCE che ha continuato ad acquistare i titoli del debito pubblico e ad immettere nel sistema una enorme liquidità.
La domanda che ora è doveroso porsi per immaginare i futuri assestamenti è intuitiva: fino a quando potremo contare su questa disponibilità?
Già cominciano ad affiorare le prime opinioni e soprattutto fatti concreti in controtendenza.
Una opinione autorevole è certamente quella espressa dall’economista, e presidente del Bundestag tedesco, Wolfgang Schauble ( Il Sole 24 Ore nel 14 maggio) secondo il quale la stabilizzazione della finanza pubblica nei Paesi membri della Unione tornerà prima o poi ad essere una condizione da rispettare nell’interesse generale, con conseguente inevitabile ritorno al rigore finanziario da parte dei Paesi più esposti. Tanto più che la stessa BCE non nasconde l’intenzione di ridurre gli acquisti di titoli non appena la ripresa sarà più robusta, e non è un caso che la stessa banca centrale abbia già modificato recentemente il “paniere” dei beni per monitorare l’andamento dei prezzi e controllare eventuali tensioni inflazionistiche.
Già in USA il tasso tendenziale di inflazione ha superato la soglia del 4% e il costo del denaro comincia a risentirne: da qui forse la preoccupazione di Schauble essendo ben nota la suscettibilità dei tedeschi di fronte a questo rischio.
In Europa questa tendenza non è ancora affiorata ma un altro elemento ugualmente preoccupante si sta verificando ed è la fiammata dell’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’acciaio al petrolio, dal legno al rame, alle derrate alimentari, al quale fa già seguito l’aumento del costo dei trasporti e dei noli. E’ evidente che se tale tendenza divenisse duratura il rischio di inflazione “importata” sarebbe reale anche per noi.
Ecco quindi un possibile assestamento, dopo la ripresa, che desta qualche preoccupazione anche per il nostro sistema. Tenendo poi conto che non possiamo ignorare il perdurare del blocco dei licenziamenti sempre in essere ma destinato a venire meno. Le tendenze inflazionistiche rischiano così di sovrapporsi all’aumento della disoccupazione, sia pure più contenuto rispetto alle previsioni di quando la pandemia era in fase marcata.
Torna quindi ancora una volta l’esigenza di una crescita del Pil molto convincente per scongiurare almeno nel breve periodo (18-24 mesi) questo rischio. Ne consegue che la vera sfida che attende i governi, e il nostro per primo, sarà dal 2023 quando si tornerà necessariamente al rigore finanziario, al rispetto dei parametri del Patto di Stabilità (anche se sarà riformato), alla riconversione per il digitale e alla tutela più accentuata dell’ambiente, sia pure potentemente sostenuti dalle risorse europee.
Guido Puccio