Che l’ex Presidente della Banca centrale europea avesse “dato la propria disponibilità a passare ad altro incarico” è un modo formalista e contorto di dire quel che tutti sapevano; e cioè che Mario Draghi era uno, anzi il primo, dei candidati alla Presidenza della Repubblica. Che lo era sin dal momento in cui egli si era insediato a Palazzo Chigi – o anche da prima – e che lo è rimasto durante tutta l’intera settimana di fuoco che si è conclusa, sabato scorso, con il rinnovo del mandato presidenziale a Sergio Mattarella.
All’indomani del voto conclusivo, nella giornata come sempre riservata alle recriminazioni, alla ricerca dei vincitori e dei vinti, e alla ricerca puntigliosa delle responsabilità, vere o presunte, di quanto accaduto, ciò ha portato a che Draghi sia finito sotto scrutinio mediatico. Per valutare quanto le conseguenze implicite in un suo eventuale successo – niente meno che una immediata crisi di Governo – avessero non solo ostacolato tale successo, ma ingarbugliato l’intera matassa che i 1009 Grandi Elettori erano chiamati a dipanare.
La questione è stata sollevata – in una diretta televisiva su “La7”– da Mario Monti, predecessore di Draghi nel ruolo di Capo di un Governo tecnico. Il quale però si è spinto fino a prendere in considerazione l’ipotesi – francamente non molto corroborata da indizi – che al fatto che il premier fosse al tempo stesso anche candidato al Quirinale andasse imputata la responsabilità di aver non solo destabilizzato il meccanismo elettorale che abbiamo visto zoppicare nell’ultima settimana, ma di aver anche, nei mesi precedenti, rallentato l’opera e ridotto “l’incisività dell’azione di Governo”. Un atteggiamento fortemente critico analogo a quello che, su un’altra rete televisiva, ha portato l’esponente radicale Daniele Capezzone a definire – risalendo nel passato – “una forzatura pazzesca” il fatto che Draghi, pur essendo premier avesse avanzato una sostanziale candidatura, pubblicamente dichiarando di sentirsi “un nonno al servizio delle istituzioni”.
Prolungandosi poi nella previsione del futuro, la critica al premier si è, nella stessa serata, trasformata in una sorta di processo alle intenzioni. Draghi – è stato ipotizzato da Peter Gomez e Pierluigi Bersani – sarà forse più debole nei prossimi mesi, e ciò indipendentemente dal fatto che si confermino o meno i segnali che fanno ipotizzare un rimpasto della compagine di governo. Ma Draghi sarà anche più decisionista, meno “buono”, e meno attento a non dispiacere alle “forze” che compongono la sua maggioranza di quanto non avesse ragione di essere sino a ieri. Il che – sia detto dal punto di vista degli interessi del paese, e di chi ha un’idea anche approssimativa di quali siano le sfide cui ci si trova davanti e della loro complessità ed urgenza – non sarebbe probabilmente da considerare del tutto negativo.
Sempre da questo punto di vista si potrebbe, anzi, far valere una valutazione meno critica del risultato ottenuto – grazie ad una vera e propria sollevazione dei “grandi elettori” contro non ancora chiarite manovre di palazzo – nella settimana che si è appena conclusa. Un risultato che, in definitiva, ha non solo doppiamente applicato il criterio di lasciar l’uomo giusto al posto giusto, ma che ha anche ottenuto una rinnovata e a lungo meditata assunzione di responsabilità da parte di Sergio Mattarella. Cioè di una personalità che gode presso l’opinione pubblica – lo si è constatato, o forse scoperto proprio negli ultimi tempi – di un grado di identificazione con la collettività e con l’identità nazionale, quale non eravamo più abituati da moltissimi anni.
Giuseppe Sacco