Stefano Zamagni si sente intimamente professore. E la sua straordinaria carriera professionale, in Italia e all’estero, è stata coronata con la nomina a presidente della Pontifica accademia delle scienze sociali. E’ stato scelto da Papa Francesco. Zamagni fa anche politica, la vera politica, quella ispirata alla polis. Ma non è un leader politico, quasi sicuramente non lo sarà neppure nel prossimo futuro. Semplicemente perché non vuole diventarlo. Esperienza, studio e osservazione della realtà, lo hanno portato ad avere una visione da statista dei fenomeni politici e sociali: del loro originarsi, evolversi e svilupparsi, con particolare attenzione al terzo settore. Ovvero il variegato mondo del volontariato sociale. E lo fa osservando la politica da “spettatore impegnato” come amava dire il politologo francese Raymond Aron.
La figura da statista emerge quando un leader politico (che Zamagni non vuole essere) parla alla cittadinanza con serietà e responsabilità, non per dire al popolo quello che vuol sentirsi dire. Come si dice in gergo: senza lisciare il pelo. Zamagni ha avuto il coraggio di smontare un mito che sta avvelenando la politica degli ultimi tempi, a dire il vero il virus che ha avvelenato la politica nella cosiddetta Seconda Repubblica. Ha smontato il mito del civismo. Senza aggrovigliati ragionamenti che spesso mascherano carenza di idee o volontà di aggirare il problema. Gli sono bastate poche parole, per andare al cuore del problema. «Il civismo – ha affermato in un’intervista a “Repubblica” edizione di Bologna di domenica 18 ottobre – non è quasi mai compatibile con le democrazie liberali. Questo perché il civismo tende a disintermediare il ruolo dei partiti. Tende a delegittimarli perché vuole dialogare direttamente con i cittadini”.
Il civismo solitamente non vuole essere identificato né di destra, né di sinistra. Ed ecco l’affondo di Zamagni: “Immorale dirsi né di destra né di sinistra”. Il civismo non è il male di questa stagione politica, è un virus che ha infettato la democrazia, come ha dimostrato il recente referendum per il taglio dei parlamentari. Il civismo si ritiene non solo politicamente e culturalmente superiore ai partiti, ma pretende di esserlo anche moralmente. Non vuole neppure essere chiamato movimento politico. Spesso si sente investito di una missione più messianica che politica. Qualcuno ricorderà ancora quel “noi siamo diversi” che risuonavano ai raduni dei Cinque Stelle tra i ritornelli di “vaffa…” Alla prova del governo tanto diversi non lo sono stati, soprattutto quando si tratta di accaparrarsi poltrone. Hanno solo aggiunto arroganza, prepotenza e improvvisazione. Indubbiamente il civismo è la conseguenza non la causa della crisi della democrazia generata dalla crisi dei partiti.
La lezione di Tangentopoli non è servita a nulla. Anzi, suo malgrado, ha peggiorato la situazione: perché ha abbattuto i partiti gettando il seme del populismo del quale il civismo è l’espressione dal “volto umano”, come si usava dire al tempo del socialismo reale. I partiti sono senza dubbio un perno centrale nel sistema democratico, tuttavia anche i partiti devono evolversi con il cambiare dei tempi, soprattutto con l’avvento delle moderne tecnologie. In ogni caso senza confondere un partito con una piattaforma web, così pure senza che il civismo diventi partito, sia pure mascherato.
Il movimento civico, nelle sue diverse espressioni e articolazioni, ha un ruolo importantissimo da svolgere: seminare, alimentare e coltivare nell’opinione pubblica il germe di un profondo cambiamento per arrivare a quella “trasformazione” tanto invocata da Zamagni sul piano politico, sociale ed economico. Una trasformazione che parte dal gettare le basi per ricostruire la rappresentanza a tutti livelli, in primis a livello nazionale: deputati e senatori oggi non rappresentano il territorio, fanno i “missi dominici” dei partiti. La trasformazione parte cambiando radicalmente il sistema elettorale affinché gli eletti siano effettivamente rappresentanti dei cittadini.
Luigi Ingegnere