Si può sostenere che, per quanto – dopo l’elezione del Presidente della Repubblica – Draghi sia ovviamente rimasto al suo posto, l’attuale Governo non è più quello di prima. E’ cambiato il contesto, sono cambiate le condizioni della sua operatività. Sono cambiate le coordinate politiche di una fase che è nuova. Se non altro, perché influisce direttamente sulla scadenza elettorale del prossimo anno.
Prima del voto per Quirinale, la solennità del momento imponeva un certo decoro, una certa compostezza. Era d’obbligo presentarsi con l’abito buono. Ora si può vestire “casual” e, perfino, far volare gli stracci, se del caso. Anche Draghi deve farsene una ragione ed adattare il passo. Nella vicenda del Quirinale ha lasciato sul campo, almeno parzialmente, quell’ “aplomb” che concorreva a garantirgli un’aura sicura d’intangibile distacco dalle miserie del chiacchiericcio quotidiano di una politica che, per certi aspetti, lo ha, invece, impietosamente ghermito.
Non c’è “demiurgo” che tenga. La “politica” è una piovra e, perfino, quando latita, impone le sue regole, detta la tempistica. I partiti hanno calibrato il timer dei loro orologi sull’appuntamento elettorale del ‘23 e misurano il tempo a ritroso. Scomputano un giorno dopo l’altro dal calendario e calcolano quanto manchi al fatidico abbraccio con il popolo sovrano. Il nostro sistema politico è simile ad un “vaso di Pandora” che mostra rime di frattura e pericolose crepe che potrebbero mandarlo in pezzi, anche inopinatamente, cioè perfino a prescindere da un deliberato disegno degli attori in campo. Se si guardasse all’ interesse del Paese, andrebbe trattato con cura per evitare che si rompa. Senonché non si può escludere che nasca un “casus belli” o s’imponga un regolamento di conti interno ad uno schieramento; oppure, con l’impeto di un temporale estivo, si alzi, improvvisa, un’ impennata emotiva, capace di travolgere un equilibrio precario.
Fa da contrappeso e da collante il comune interesse a gestire le risorse del PNRR e a non esporre il fianco nei confronti di una disgraziatissima ripresa della pandemia, che – incrociando le dita – nessuno ancora può escludere.
Comunque – come su queste pagine è stato, da tempo, ampiamente osservato – è difficile immaginare che le forze politiche e i relativi schieramenti, a destra come a sinistra, scoprano una tale misura di attenzione all’interesse generale del Paese da sottrarsi a quel tiro alla fune diretto ad occupare la miglior posizione in vista del “gran premio” elettorale.
La somma algebrica di queste opposte tendenze, con ogni probabilità, non condurrà affatto ad una crisi di governo. Che, però, non è escluso debba vivere, fino al passaggio elettorale, in uno stato di perenne eretismo. Cioè, in una condizione sofferta di eccitabilità, che, se pure non impedisce l’esercizio delle funzioni vitali, le rende faticose, al punto che l’organismo penosamente si scompone, perde aderenza e si isola dal contesto. Cosicché, non resta che ricorrere a farmaci che possono avere pesanti effetti collaterali di carattere sedativo, quindi difficili da dosare, per cui si entra in un’altalena disforica che non porta da nessuna parte.
Ci vorrebbe qualcuno che sapesse rompere l’incantesimo autoreferenziale di un sistema chiuso che, intento a celebrare i suoi riti, via via si allontana, come un naviglio senza timoniere, dalle rotte su cui incrociano la vita reale, gli interessi, i timori, le speranze e le attese del Paese.
Non è affatto fuori luogo – anzi confermata dai fatti – l’intuizione originaria che, fin dai giorni del nostro Manifesto – datato novembre 2019 (CLICCA QUI) – suggerisce l’urgenza di una strategia di “trasformazione” del nostro sistema politico e del contesto civile che vada oltre il classico e tradizionale riformismo.
Domenico Galbiati