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Il Lavoro e gli investimenti nell’era digitale – di Natale Forlani

L’impatto dell’intelligenza artificiale(AI) sulle organizzazioni produttive è diventato l’oggetto di numerosi studi e approfondimenti che, allo stato attuale, faticano a delineare scenari condivisi per il futuro dell’occupazione. Tuttavia, sul piano pratico, emergono alcune tendenze comuni a tutti i mercati del lavoro dei Paesi sviluppati che aiutano a comprendere la gamma delle opportunità e delle criticità emergenti e che possono essere valorizzate per massimizzare le opportunità e ridurre i costi della transizione digitale.

La diffusione dell’utilizzo dell’AI può consentire un aumento straordinario della produttività, il miglioramento della qualità dei prodotti e dei servizi offerti alla collettività e di offrire risposte alla riduzione della popolazione in età di lavoro e alla sostenibilità delle prestazioni sociali connesse all’invecchiamento della popolazione. La possibilità di tradurre queste queste potenzialità in realtà dipende dalla generazione di ambienti favorevoli alla diffusione delle innovazioni, dal numero dei cittadini che sono in grado di utilizzare le tecnologie digitali per accedere ai servizi e dalla crescita delle competenze dei lavoratori che devono trasferire e/o utilizzare le innovazioni nelle nuove organizzazioni del lavoro.

Per queste finalità, il programma decennale per la transizione digitale approvato dalle istituzioni dell’Ue propone come obiettivi minimi da raggiungere entro il 2030: la diffusione delle competenze digitali di base per almeno l’80% della popolazione; l’utilizzo di software evoluti per il 75% delle imprese; la completa digitalizzazione dei servizi pubblici erogati ai cittadini. Nelle indagini DESI, messe in campo dalla Commissione europea per valutare lo stato di avanzamento del programma, il posizionamento dell’Italia nel contesto dei 27 Paesi aderenti non è confortante. La quota della popolazione tra i 16 e i 74 anni in possesso delle competenze digitali di base (42%) risulta inferiore di 12 punti rispetto alla media Ue e di 11 punti (il 23%) per quella dotata di competenze superiori. Il dato medio italiano riflette anche i nostri squilibri interni relativi: all’età (61,7% per gli under 24 anni e 17% per gli over 64); nei titolo di studio (-8% per le persone con la terza media ); ai territori di appartenenza (inferiore al 35% nella gran parte delle regioni meridionali); per le qualifiche professionali (il 75% per i profili medio elevati, il 34% per le basse qualifiche). Gli scostamenti negativi rispetto alla media Ue si manifestano anche sul versante delle imprese per la quota di quelle che: vendono servizi e prodotti on line, 18% (-4 punti); utilizzano software evoluti, 32% (-6 punti) applicazioni di AI, 8% (-5 punti).

Solo il 13% delle imprese con meno 10 addetti assume personale con competenze digitali specialistiche, quota che aumenta al 19% per quelle che promuovono corsi di aggiornamento per il personale. Le tendenze negative sono fonte di preoccupazione se si tiene conto che le quote dei lavoratori anziani, degli occupati con bassa qualificazione e delle imprese con meno di 10 addetti registrano una maggiore incidenza nel nostro mercato del lavoro.

L’attuale popolazione attiva per quantità (il basso tasso di occupazione) e qualità (la quota ridotta dei profili con elevata qualificazione) non è esattamente nelle condizioni di reggere una transizione digitale che si preannuncia complessa e piena di incognite. La componente dei lavoratori esecutivi qualificati e specializzati si sta rapidamente riducendo in relazione al pensionamento dei lavoratori anziani. Rimane elevata quella dei lavoratori sottoccupati in attività economiche che registrano tassi di investimento inadeguati.

La produzione di nuove competenze, non solo quelle che richiedono solidi percorsi formativi, risulta inferiore al tasso di sostituzione dei lavoratori anziani in procinto di andare in pensione e parzialmente disallineata rispetto ai fabbisogni delle imprese. Negli ultimi due anni, l’aumento vertiginoso del numero dei profili richiesti dai datori di lavoro che non trovano disponibilità di lavoratori (dal 32% al 47%) è l’indicatore della gravità del problema.

Allo stato attuale la temuta prospettiva di un saldo negativo per l’occupazione generato dalle applicazioni dell’AI non trova riscontro. In tutti i mercati del lavoro dei paesi sviluppati la richiesta di lavoratori competenti risulta superiore all’offerta di lavoratori disponibili. Pertanto, la possibilità di soddisfare pienamente i fabbisogni dipende dalla capacità di attrarre persone formate da altre nazioni. La carenza di risorse umane in grado di trasferire e di utilizzare le nuove tecnologie nelle organizzazioni del lavoro comprime la possibilità di espandere gli investimenti, la produttività e i salari. Condizioni che sono indispensabili per accrescere l’attrattività del proprio mercato del lavoro.

Il sottoutilizzo del potenziale italiano di risparmio da dedicare agli investimenti, delle tecnologie digitali e delle risorse umane in età di lavoro è diventato una caratteristica strutturale del nostro Paese. Una criticità che non può essere affrontata con la mera richiesta di aumentare la quota degli investimenti pubblici in assenza di una mobilitazione organica degli attori: il sistema delle imprese, le rappresentanze del mondo sindacale, le istituzioni formative, che si devono fare carico dell’esigenza di migliorare la qualità della formazione erogata per adeguare le competenze dei lavoratori e le organizzazioni del lavoro.

La distanza accumulata rispetto agli altri Paesi non è dovuta a carenza di risorse finanziarie, ma è la conseguenza di approcci culturali sbagliati. Nel mondo delle tecnologie digitali i confini tra l’essere cittadini, consumatori e produttori diventano labili e la capacità di governare l’impatto sull’occupazione e sulle relazioni sociali dipende soprattutto dalla qualità dei valori e dei comportamenti condivisi dalle persone e dalle comunità di appartenenza. Pertanto, l’attuale distanza tra i percorsi educativi e formativi rispetto a quelli professionali deve essere drasticamente ridotta.

Va evitato l’errore di ritenere che la soddisfazione dei fabbisogni professionali dipenda essenzialmente dal livello delle conoscenze tecniche. Con le applicazioni dell’Intelligenza artificiale generativa buona parte di queste saranno incorporate nei software e diventano meno importanti, ma assume un grande valore la capacità di utilizzare le tecnologie per utilizzarle in modo virtuoso per le finalità produttive e sociali.

Il successo delle politiche economiche e del lavoro dipenderà per buona parte dalla quantità e dalla qualità degli investimenti pubblici e privati rivolti a incrementare le competenze tecniche, creative e relazionali dei lavoratori.

La sostenibilità della transizione tecnologica dipende anche dal tasso di innovazione sociale che gli attori istituzionali e le rappresentanze del mondo del lavoro devono promuovere per ridurre i tempi delle transizioni lavorative, per migliorare la qualità delle offerte di lavoro e l’armonizzazione delle prestazioni lavorative con gli stili di vita.

Natale Forlani

Pubblicato su wwwilsussidiario.net

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