Conte se lo poteva aspettare che l’Elevato avrebbe preteso di imporgli perlomeno una diarchia, anzi di riservare di fatto, in ogni caso, l’ultima parola a sè stesso: per ribadire – ad esempio, con il limite del doppio mandato – i caratteri originari e distintivi dei “grillini” che tali restano.
Eppure, mai avrebbe immaginato che Grillo lo mettesse sotto schiaffo, fino ad umiliarlo, cosicché risulti chiaro – coram populo – che la condizione perché possa mettersi alla testa del Movimento è che prima lui stesso pieghi la sua, chino fino a baciare la pantofola del Garante.
Non è affatto escluso che, una volta consumato il rito sacrificale, la cosa si aggiusti, dal momento che ciò confermerebbe quel che Grillo desidera e, cioè, mostrare che è lui il maschio-alfa ed ha, quindi, diritto ad esigere il riconoscimento della sua indiscussa primazia, su Conte e simbolicamente su ogni altro militante pentastellato.
Si tratta di capire se due anni di residenza a palazzo Chigi hanno corroborato l’orgoglio o almeno l’ autostima ed il rispetto di sé di Conte almeno in misura sufficiente perché sappia respingere al mittente, il “vaffa” che Grillo ha rovesciato sull’intero Paese. D’ altra parte se l’è cercata e, dunque se pur intervenisse un accomodamento di facciata, Conte verrà comunque percepito come un leader dimidiato e questa non è una buona cosa per il Paese, almeno finché i “5 Stelle” continueranno ad essere il gruppo numericamente più importante del Parlamento.
Grillo, al contrario, almeno secondo la sua logica, in fondo non ha tutti i torti. Quale fondamento ha, infatti, il Movimento 5 Stelle che non sia l’hybris del fondatore ? E’ stato in grado, al governo del Paese per due anni, di sviluppare, non dico una strategia compiuta, ma almeno quel po’ di indirizzo politico che gli consenta di essere, se non “altro”, almeno quel tantino in più, oltre la rabbia ed il dileggio riversato da Grillo su tutto e su tutti, che ne attesti attendibilmente una qualche fisionomia?
Senonché, a questo punto si pongono alcuni problemi o almeno spunti di riflessione che vanno al di là del Movimento e ricadono sul Paese.
Può un partito del genere porsi, nei confronti della collettività nazionale, come fattore di una democrazia che non conosce, di fatto lacerato tra le fantasie di una presunta “democrazia diretta” e la fattualità di una struttura talmente verticistica da esitare nel potere insindacabile ed assoluto di uno che vale per tutti?
Può la politica di un grande Paese, comunque strategico negli equilibri europei, mediterranei ed internazionali, essere alla mercé dell’imprevedibilità di una forza che necessariamente, al di là di ogni buona intenzione, quando la sua leadership è così fortemente personalizzata, dipende più dagli umori transeunti del capo carismatico che non dalla elaborazione di una linea politica che abbia una sua coerenza interna?
Va, del resto, osservato come il “leaderismo” sia inevitabilmente connesso al “populismo”, secondo un rapporto di necessità, quindi irrisolvibile, che sia ora di causa, ora di effetto.
Può il PD che ha “sua sponte” attribuito un’etichetta di sinistra o, almeno, di carattere progressista ai “5Stelle” pur di arruolarli nel suo Polo – costretto, com’è, a prendere quel che passa il convento in quel gioco sterile di incastri di potere in cui si risolve la politica dei partiti che tengono oggi la scena, dopo decenni di bipolarismo maggioritario – sentirsi rassicurato nella sua strategia?
Sarebbe stato lecito attendersi, in fondo dallo stesso Zingaretti, a maggior ragione con il cosiddetto “cambio di passo” del nuovo segretari che il Pd, cambiasse gioco ed aprisse porte e finestre di un sistema politico bollito ed, invece, non fa che soffiare sul fuoco di una minestra riscaldata.
Ma la riflessione più rilevante in merito concerne, ben oltre i confini del “grillismo”, la fisionomia politica, la struttura organizzativa, la funzione dei partiti in questa fase della vita civile e democratica dell’Italia.
Il “grillismo”, infatti, è sì un fatto nuovo, ma, nel contempo, non fa altro che portare all’acme e, dunque, ad una speciale evidenza, tratti caratteriali, si potrebbe dire, del nostro sistema politico che sono diffusi e consolidati da tempo, pressoché in ogni altro partito. Per quanto alcuni di essi siano percorsi da tensioni interne tutt’altro che indifferenti, persiste una identificazione di ognuno con il proprio leader, così assorbente da renderli inservibili come strumento di partecipazione effettiva e diffusa a quel processo di analisi critica della condizione sociale che rappresenta il preludio di una effettiva capacità di governo.
Se vogliamo trasformare il nostro Paese abbiamo bisogno non di nuovi partiti, ma di partiti nuovi, che sappiano interpretare la politica non come una sorta di dottrina esoterica che ricorre a rituali, argomentazioni o posture dialettiche decifrabili solo da “chierici”, cioè dai cultori di una disciplina che si avvale di un linguaggio arcano e quasi misterico, che loro soltanto possiedono ed armeggiano abilmente secondo le sue mille sfumature.
Tutti, chi più chi meno, perfino chi lo coltiva e ne gode maggiormente i frutti, ci lamentiamo del “populismo”, ma non riflettiamo abbastanza sul fatto che, per molti aspetti, rappresenta una chance – e per taluni l’ultima – che gli stessi partiti mettono in campo, come surrogato a quel compito di educazione al “pensare politicamente” che dovrebbe essere consustanziale alla loro funzione pubblica.
Si può, in qualche modo, porre rimedio? Una possibile risposta consisterebbe nel passare dal modello “leaderistico” al metodo della “collegialità”, cioè ad una forma-partito che muove dal basso, non solo radicata nei territori e nei suoi luoghi vitali, ma capace di riportare le competenze diffuse e, talvolta, nascoste nelle pieghe di una società sfiduciata alla consapevolezza ed all’orgoglio del loro ruolo.
Partiti che, anziché assorbire nella loro cinta muraria tutto quel poco che ancora riescono a catturare, asservire e militarizzare in funzione della loro battaglia ideologica o identitaria, aprano le porte, calino il ponte levatoio, si immettano nel flusso, sia pure disordinato, rumoroso e defatigante, della vita di tutti i giorni.
Che siano, insomma, sistemi aperti che, pur dotati di principi e valori cui in nessun modo rinunciano, siano in grado di apprendere induttivamente dall’humus in cui vivono, al punto di saper rimodulare gli stessi assiomi da cui prendono le mosse. Contrariamente a quei sistemi chiusi e deduttivi cui si rifanno i partiti a trazione carismatica.
INSIEME contempla la collegialità tra i suoi caratteri distintivi ed anche su questo fronte intende giocare la sua scommessa.
Domenico Galbiati