Noam Chomsky ha scritto che «Si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica»; in pratica, sono conservate più informazioni politiche, economiche e sociali in una sola pagina di un classico della letteratura che in tutti i trattati di scienze sociali che siano mai stati scritti. È a partire anche da questa considerazione che possiamo tentare una riflessione politica ed economica su Alessandro Manzoni e ricordarlo in occasione dei 150 anni dalla sua morte.

Tale analisi ci consente di guardare alla letteratura come strumento di conoscenza, aggiungendo, come ha scritto Dario Antiseri, che l’arte e la letteratura sono esse stesse conoscenza, in quanto rappresentazioni della realtà ottenuta non ricorrendo a strumenti analitici – così come avviene nella scienza – bensì a opera di “mezzi sintetici”. In breve, grazie all’arte e alla letteratura possiamo conoscere il mondo reale, ossia un insieme di tipi di uomini, di rapporti tra uomini, di idee e di ideali, talvolta meschini altre volte grandiosi, mostrando crudeltà o bontà. Afferriamo le situazioni sociali attraverso la “costruzione di mondi possibili” che ci persuadono per il realismo che essi esprimono ovvero che ci consentono di comprendere la realtà, una volta messa “in contrasto con mondi di fantasia”.

Venendo al Manzoni, possiamo affermare con Alberto Mingardi, autore di un bel saggio su Manzoni e il pensiero economico in corso di pubblicazione (Lo sguardo politico dei grandi narratori. Un percorso di ricerca, Rubbettino 2023) che, come tutte le grandi opere letterarie, I promessi sposi si prestano a letture multiple e diverse. Seguendo la lezione di Luigi Einaudi, di Francesco Forte e di altri economisti e storici del pensiero economico, si può dire che siamo di fronte ad un grande romanzo sul potere e un potente invito all’umiltà epistemologica. Manzoni è un attento osservatore del “guazzabuglio del cuore umano” che svela meccanismi ormai ben noti agli scienziati sociali: a cominciare dal ruolo giocato dai bias cognitivi nelle scelte individuali e collettive, di alcune percezioni errate che spesso conducono a decisioni affrettate ovvero comode perché assecondano gli umori più diffusi.

Il racconto che Manzoni ci offre della carestia, i tentativi di arginarne le conseguenze da parte della politica, si pensi all’introduzione del calmiere, e la reazione feroce del popolo sono tutti elementi che ci invitano a considerare il carattere liberale di Manzoni e la sua capacità di svelare una fatale distorsione cognitiva. Un caposaldo della teoria politica ed economica liberale è la cosiddetta teoria delle conseguenze non intenzionali, la consapevolezza che ogni azione produce un numero infinito di conseguenze e che nessuno scienziato, per ragioni logiche, potrà mai controllarle tutte. Ne consegue che i fenomeni e le istituzioni sociali sono, in gran parte, il prodotto non intenzionale di azioni umane volontarie. Tornando al caso di specie, Manzoni ci dice che, tanto per il pane che manca quanto per la peste, la folla desidera un colpevole che possa appagare la sua collera. Tutti sapevano che la carestia era dovuta a scarsi raccolti, inoltre c’era stata la guerra di successione di Mantova ed erano scesi i lanzichenecchi. Ciononostante, il popolo vuole un colpevole e l’autorità politica tende ad assecondarlo, fingendo di credere che «ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo».

Sarà questo l’errore del cancelliere Antonio Ferrer secondo il quale, di fronte alla penuria di pane «un suo ordine potesse bastare a produrla». Quanto costa imparare che «tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione». Manzoni, dal buon liberale che aveva metabolizzato l’insegnamento dell’economia classica, in particolar modo la lezione di Adam Smith e di Cesare Beccaria, era ben consapevole che il prezzo dei beni, compreso quello del pane, è la risultante «dalla proporzione tra il bisogno e la quantità».

Sono in molti a ritenere che Manzoni sia stato il primo grande liberale cattolico dell’epoca contemporanea e, tra costoro, Antiseri sostiene che una tale tesi si fondi sul fatto che per Manzoni l’unico criterio valido per interpretare eventi storici e situazioni politiche stia nel bene e nel male compiuto dai singoli individui la cui vita si è intrecciata e si è svolta in precise situazioni e in concreti eventi storici; qui torna in ballo la teoria delle conseguenze non intenzionali. Ciò significa che il liberalismo di Manzoni non ci consente il ricorso ad interpretazioni deterministiche e collettivistiche della storia, all’esaltazione della ragion di Stato e alla giustificazione utopistica del male in nome di un ipotetico “sole dell’avvenire”.

È questo un aspetto del liberalismo di Manzoni, per ammissione dello stesso: “laico in tutti i sensi”, che il grande narratore ha saputo trasmettere ai liberali e ai cattolici; a quei liberali e a quei cattolici che hanno creduto che liberalismo e fede cristiana siano tra loro inestricabili, essendo il liberalismo, per usare le parole di Wilhelm Röpke, il “figlio spirituale del cristianesimo”. Una lezione ancora attuale, come ha avuto modo di affermare Alessandro Passerin D’Entrèves, rispetto ai rigurgiti temporalisti e ad un anticlericalismo rancoroso e sterile.

Flavio Felice

Pubblicato su www.ilsole24ore.it e ripreso con l’autorizzazione dell’autore

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