Salute e malattia sono, ambedue, condizioni talmente connesse alla singolarità del soggetto da suggerire che, qui più che altrove, i relativi servizi non possano che vedere la Persona al centro. Senza l’abusata retorica che troppo spesso accompagna una tale affermazione. Ma in questo caso siamo dinanzi ad una oggettiva ed intrinseca ragione tecnica.
Questo richiama l’ attenzione su almeno tre aspetti che vanno considerati quali premesse alla costruzione di un Sistema sanitario che sia in grado di affrontare le trasformazioni avvenute negli ultimi decenni, in campo demografico, epidemiologico, tecnologico e scientifico.
Anzitutto, la consapevolezza del limite che concerne, in modo strutturale e necessario, il nostro essere umani. In secondo luogo, la responsabilità personale consapevole ed attiva che a ciascuno compete in ordine al mantenimento della propria salute. Infine, il ruolo che al rapporto “medico-paziente” – ed alla clinica, intesa, se vogliamo, nel senso antico del termine – deve o meno essere ancora riconosciuto, nell’ età di una prorompente esplosione tecnologica della medicina. Per fermarci, per ora, al primo punto.
La medicina, pur senza volerlo, è abitata da un nemico esiziale e, cioè, da una presunzione di onnipotenza fuorviante e pericolosa. Come se avesse o fosse tenuta ad avere un potere demiurgico e salvifico. Per la verità più che nutrirlo in proprio, viene rivestita di questo abbaglio da pretese estranee al suo statuto scientifico e che di per sé non le appartengono, eppure rischia di pagarne il prezzo. Non a caso, la cosiddetta “medicina difensiva” rappresenta uno dei motivi di disaffezione dalla professione medica. Non essendo, infatti, la medicina una scienza esatta, mantiene pur sempre un’alea di discrezionalità soggettiva, anche sul piano della valutazione clinica, facilmente attaccabile spesso in modo del tutto strumentale.
Siamo quasi al punto che di fronte ad ogni decesso sorga la domanda quale concorso abbia offerto la “malasanità” ad un tale infausto evento. Inconsciamente, anche questo è un modo come un altro per chiudere gli occhi di fronte alla morte, quasi a volerla escludere dal novero delle cose che attengono alla nostra umanità, per confinarla nell’accidentalità delle catastrofi. Sì, la morte sempre più è concepita come una catastrofe ed , ovviamente, non è facile vivere con una catastrofe che ti incombe tra capo e collo. La medicina non è onnipotente e guai se lo fosse.
Noi rifiutiamo la morte e quanto più non siamo in grado di trascenderla in una prospettiva di vita eterna, tanto più, senza confessarlo a noi stessi, ci arrabattiamo in mille modi per scotomizzarla. Eppure, la vita e la morte sono intimamente connesse più di quanto non siano le classiche due facce della stessa medaglia, cosicché la seconda è inseparabile dalla prima e, nella prospettiva temporale che ci è dato vivere, rappresenta quell’ estremo confine senza il quale la volatilità del tempo non lascerebbe traccia, per cui vivremmo di un presente sfilacciato, privo sia di memoria che di speranza e di attesa, dunque insipido ed incolore.
Insomma, il limite è costitutivo della nostra umanità e va inteso non come una barriera che soffoca le aspirazione che originariamente abitano il cuore dell’ uomo, ma piuttosto come un principio ordinatore che definisce e struttura, secondo un ordine dotato di senso, il campo delle nostre esperienze. Senza la consapevolezza del limite, è la vita in sé ad ammalarsi.
La malattia e lo stesso invecchiamento, per quanto fisiologico, diventerebbero momenti costretti a collocarsi fuori, anzi contro quell’orizzonte di senso della vita che pur dovrebbe comprenderli. La medicina può dispensarci salute, ma la salvezza è un’altra cosa.
Domenico Galbiati