E se la vera novità dei cosiddetti “tempi nuovi” – questione che mette alla frusta anche la politica – fosse questa: che la “novità”, in quanto tale, finalmente si mostri davvero possibile? Il che non è per niente scontato, in un mondo che è sì sempre più ricco di eventi inattesi, di profili inediti, di potenzialità impensabili e spesso sorprendenti, eppure è sottoposto alla stretta di potenti campi di forza, generati da presunzioni ideologiche o da interessi preordinati, che cercano di sottometterci ad invincibili processi di omologazione al costume e al pensiero dominante.
I “tempi nuovi” che Aldo Moro intuiva nello scorcio conclusivo degli anni ‘60 si sono esauriti in quel particolare frangente, oppure altro non erano se non l’avvio di un processo che, sia pure attraverso percorsi sotterranei, è lo stesso che preme tuttora alle nostre porte? Non si snoda forse, da quattro, cinque decenni a questa parte, la ricerca faticosa ed ininterrotta, di una trasformazione che, come un fiume carsico, s’ingrotta nelle viscere della nostra storia e poi forma, qua e là, dove la pressione del cambiamento trova fessure da cui prorompere, delle risorgive che chiamiamo: globalizzazione, provocazione antropologica della tecno-scienza, migrazioni, formazione di società multietniche, crescita esponenziale della comunicazione, società della conoscenza, consapevolezza del degrado ambientale che ci assedia?
La contestualità di queste ed ancora altre svolte epocali, il grappolo di timori e, ad un tempo, di speranze che lambiscono i nostri giorni non rendono forse l’idea dello sforzo cui l’umanità è chiamata ad attendere, come se faticosamente si stesse inerpicano su per l’ultimo miglio di un cammino scosceso, prima di giungere ad un crinale della storia che si apra su una prospettiva più vitale e del tutto nuova? E se fosse così, da credenti non dovremmo interrogarci circa la nostra particolarissima responsabilità, ove consentissimo, ad esempio, con la riflessione di Francois Jullien, il quale – da filosofo ateo – ritiene di dimostrare, seguendo il Vangelo di Giovanni, che solo il cristianesimo rappresenta, oggi, il germe e la culla della “novità” possibile ?
Una novità – secondo il pensatore francese – che non “accade”, bensì “avviene”. Laddove, per “accadere” si intende lo sviluppo di un processo che è già presente, in nuce, nei suoi presupposti storici e, come tale, segnala un’evoluzione – che tale resta, sia pure quando assuma le forme di una frattura “rivoluzionaria” – piuttosto che una “novità”, nel senso radicalmente proprio del termine. Tale da poter solo “avvenire”, cioé irrompere nella nostra vicenda quotidiana da un “dove” impensabile. Come se lo sviluppo del processo storico fosse il punto di equilibrio tra una “vis a tergo” – che lo sospinge attraverso una catena di con-cause che si possono descrivere e, almeno parzialmente, comprendere – e la forza di un “attrattore”, una sorta di “causa finale” che sembra richiamarlo ed assorbirlo entro una dimensione appunto inedita e, a prima vista, indecifrabile. Un po’ come la pandemia.
Se fosse così, non dovremmo sentirci autorizzati a sperare, invitati a rovesciare il timore in fiducia, sollecitati – in particolare, coloro che assumono la responsabilità dell’ impegno politico attivo – a considerare le sfide del nostro tempo, anziché l’orlo di un baratro, la via d’accesso ad una stagione più intensa, più ricca e più viva della nostra comune umanità? Può o deve, forse, essere questo il carattere previo, la cornice e la cifra della “visione” secondo cui orientare, fin d’ora, per un domani aperto ad un sentimento di attesa fiduciosa e di speranza credibile, la nostra azione politica?
Domenico Galbiati