Nel florilegio di forme-partito che abbiamo conosciuto, in modo particolare negli ultimi trent’anni, mancava, almeno finora, il “partito a dispetto”, ma pare si stia provvedendo a colmare la lacuna.
Infatti, da esponenti che già hanno abbandonato Forza Italia, da altri che meditano di farlo ed, in ogni caso, non intendono subire una coabitazione forzata con Salvini e la Meloni, dai “renziani” che stanno fuori o dentro il PD, senza escludere il movimento di Calenda, pare che molti appetiti concorrano a delineare – per quanto il disegno sia, per ora, appena tratteggiato a matita – il cosiddetto “partito per Draghi”. Non – è stato precisato – “di”, ma “per” e qui la preposizione non è una sottigliezza trascurabile, ma un dato sostanziale.
Segnala, infatti, e qui sta l’originalità inedita della questione, che qualunque cosa sia questo presunto, eventuale partito – un rassemblement, un movimento d’opinione, un cartello elettorale, un’alleanza più o meno organica e strutturata, in prospettiva un partito vero e proprio – nascerebbe non su iniziativa del leader cui si intitola, ma addirittura a sua insaputa e fors’anche, appunto, a suo dispetto. A suo dispetto, con ogni probabilità, doppiamente.
Intanto per chiamarlo fuori dalla corsa al Quirinale, dove l’autorevolezza di Draghi fa, se non altro, ombra a qualunque altro pretendente. In secondo luogo, perché, fino a prova contraria, non risulta, almeno finora, che Draghi abbia mai pensato o pensi alla fondazione di un partito, che inevitabilmente nascerebbe nel segno di quella esasperata personalizzazione che della politica rappresenta un tarlo corrosivo tra i più dannosi.
C’è chi vede tale partito al “centro” dell’attuale sistema politico, caricando, in tal modo, su questa fatidica parola un ulteriore carico di ambivalenza, anzi di ambiguità di cui francamente non ha bisogno, talmente ne è già oberata di suo. Altri cercano di intestarlo al centro-destra. Non è escluso che, prima o poi, la stessa rivendicazione provenga anche dall’ altro versante.
Potremmo, insomma, per quel che vale, assistere ad una sorta di tiro alla fune, ma a somma zero. Si tratta, infatti, di un gioco in cui se all’acme dello sforzo, ad uno dei due contendenti sfuggisse di colpo la presa, uscirebbe sconfitto dalla gara, ma l’avversario rovinerebbe a terra e perderebbe a sua volta.
Non c’è dubbio che Draghi sia una risorsa di grande rilievo per il nostro Paese, soprattutto per quanto ci accredita o ci riaccredita sul piano internazionale dopo la caduta di credibilità e di semplice stima che abbiamo sofferto nell’intero decorso della seconda Repubblica. Ma è chiaro e lampante che il nostro ordinamento democratico è fondato sulla centralità del Parlamento – tempio della democrazia rappresentativa e della sovranità popolare – in nessun modo sul leader carismatico di turno. Sia chiaro: neppure se si chiama Draghi, per quanto sia competente ed autorevole.
Tanto più considerando come, in nessun modo, il Presidente del Consiglio abbia mai immaginato di lasciarsi trascinare in ruoli o in percorsi che sembrano studiati per ottenere una certa torsione del dettato costituzionale, in vista di una procurata evoluzione del sistema politico orientata verso forme di presidenzialismo e di centralizzazione del potere. Il “partito per Draghi”, in sostanza, tradisce il vecchio abusato italico vizio di ricorrere all’ “uomo forte” del momento che interpreti l’ala del destino che il quel determinato frangente batte sul quadrante della storia.
Questa volta lo si vorrebbe pretendere perfino a suo dispetto. Senonché, non abbiamo bisogno di eroi, né di salvatori della Patria, ma del fisiologico funzionamento delle istituzioni che presiedono alla tenuta democratica del Paese in un momento di transizione difficile, ma, nel contempo, ricco di potenzialità.
Domenico Galbiati