Il “harakiri” è il suicidio dei samurai giapponesi. Consiste nello sventramento delle proprie viscere. Il Pd, per essere sicuro di riuscirci meglio, ha tagliato persino più sotto. Grazie ad Enrico Letta, ma con l’apporto di tutto il suo confuso gruppo dirigente, può oggi essere affermato che l’intervento chirurgico è riuscito perfettamente ed il paziente è spirato serenamente.
Eppure, c’era chi vedeva da tempo che le cose erano destinate a finire così. Noi, fra questi. Ma ci siamo solo presi gli improperi di chi ci accusava solo di non capire, o di non voler capire, perché animati da un preconcetto contro il Pd. Alcuni amici cattolici, poi, ci rimproveravano perché stavamo a parlar male di Enrico Letta. E tra consanguinei, politicamente parlando, ovviamente, certe cose non si fanno, anche se da tempo si sono imboccate strade diverse. Come se, in ogni caso, il dirsi cattolici significasse sul piano politico essere la stessa cosa. Non vale a sinistra, come non vale a destra. E in quest’ultimo caso è molto evidente dopo che tanti cattolici sono corsi, e stanno correndo, sotto le ali della Meloni dopo averlo fatto per anni sotto quelle di Salvini. A conferma del fatto che, al di là della tanto “sinodalità” di cui si parla, alla fine, fa aggio la cultura politica che ognuno matura. Quelli di destra stanno a destra e viceversa. Poi, comunque, siamo tutti … cattolici.
In ogni caso, le voci di critica, per queste nostre critiche al Pd, c’è da riconoscerlo, sono via via diventate sempre più flebili tanto evidente appariva il “harakiri” in progressione inarrestabile.
Come non prendere atto dei successivi errori giunti nel 2022 al loro culmine quando all’idea del “campo largo” venivano date diverse sfumature ogni giorno che passava? Cosa pensare di un gruppo dirigente , perché Letta c’ha messo molto del suo, ma non ha fatto tutto da solo, in grado in ogni caso di rendersi conto di come si stesse sostanziando uno schieramento di destra capace di portare via al centro sinistra una regione dopo un’altra e, intanto, non metteva mano ad una riforma elettorale grazie alla quale poteva essere costruita una realtà politica diversa, oltre che dare davvero voce al Paese? Ma il tempo è stato perso e, contemporaneamente, si procedeva nei confronti dei 5 Stelle in maniera tale da far cancellare ogni ipotesi di collaborazione. Come del resto ha confermato l’impostazione data alla crisi del Governo Draghi cui in molti, anche a sinistra, hanno concorso. E così facendo si è paradossalmente dato respiro ad un’ipotesi Conte “di rottura” che ha fatto triplicare i voti dei 5 Stelle rispetto a quel cinque per cento loro attribuito dai sondaggi a mano a mano che andava avanti l’esperienza Draghi.
Comunque, questo poteva pure avere una sua logica se, successivamente, non si fosse insistito su di una linea ondoviga nei confronti del partito di Conte, culminata comunque nel sostegno dato all’ipotesi scissionistica di Luigi di Maio. E intanto, altrettanto ondivago era il comportamento nei confronti di Renzi e Calenda, fino a culminare nella chiusura netta ed inequivocabile verso il primo e della improvvisa rottura con il secondo a causa della decisione di imbarcare, invece, verdi e sinistra estrema. Era questo il “campo largo”, o il caos totale?
E, poi, perché non è finita qui, ricominciare con l’indeterminatezza. Come quella in corso nella vicenda elettorale che riguarda Lombardia e Lazio. Nella prima regione, si riespone il ramo d’ulivo verso Conte; nella seconda, verso il Terzo Polo, non facendo comunque mancare un ammiccamento, questo sembrerebbe tutta farina del sacco personale del candidato D’Amato, nei confronti dei “grillini”.
Così, oggi, in questo inizio del 2023, resta solo da constatare che la crisi strategica, ma anche della tattica, del Pd è ancora tutta in corso. E forse le due crisi s’incrementano a vicenda perché se non c’è un’idea chiara sul sentiero da percorre verso l’avvenire è molto probabile inciampare anche nelle più piccole cose.