Data la “complessita'” della prospettiva in gioco, si puo’ o si deve arrivare fino alla creazione di un partito politico oppure questo sbocco è da escludere a priori?
Se si ponesse in questi termini che reciprocamente si escludono, la questione relativa all’ approdo cui dovrebbe giungere quel tanto di dibattito che oggi ferve circa la nuova fase di un impegno politico di ispirazione cristiana, ci infileremmo in un collo di bottiglia destinato a strozzare ogni aspettativa di soluzione, dall’una e dall’altra parte.
Checche’ se ne dica, i partiti sono una cosa seria e non nascono nell’ orto sotto una verza.
Questo significa che bisogna ponderare bene i passi ed evitare fughe in avanti e precipitazioni che potrebbero risolversi in rinculi che sarebbero controproducenti, dal momento che, se si vuole incidere politicamente, bisogna pur arrivare al partito, a dotarsi, cioè, di una forza organizzata che, a tempo debito, sappia affrontare anche la sfida elettorale.
Non ci si può trattenere al pur nobilissimo piano di una presenza sociale e culturale diretta alla crescita di una maturità civile che sia all’altezza del tempo che ci è dato vivere. Ma si tratta di disegnare un percorso poiché anche qui la forma la fa da sostanza.
Pertanto, se vogliamo esplorare questo versante, e’ necessario, anzitutto, formulare la domanda in modo appropriato, sperando che, come spesso succede anche per temi complessi, la risposta sia gia’ in buona misura contenuta nella domanda stessa, ove questa sia posta correttamente.
A monte di ogni altra considerazione, si tratta di stabilire se l’ispirazione cristiana e coloro che si propongono di interpretarla nella peculiarita’ di questa fase di svolta e di passaggio dall’eta’ moderna alla cosiddetta “postmodernita'”, abbiano o meno qualcosa di assolutamente originale e di cui il nostro contesto civile abbia oggi effettivamente bisogno, da offrire.
Qualcosa di cui il Paese non possa fare a meno e che, nel contempo, o viene assicurato entro questa “cifra” dell’ispirazione cristiana, oppure viene a mancare e semplicemente non e’ dato.
Se la risposta fosse “si'”, si potrebbe procedere. Se fosse negativa o almeno dubbia, sarebbe meglio desistere.
Infatti, nel primo caso, la nostra azione sarebbe orientato all’interesse generale del Paese e, come tale, non solo legittima, ma addirittura doverosa.
Nel secondo caso, si configurerebbe, per lo piu’, come una rivendicazione di parte o di potere ed, in tal caso, pur legittima, lascerebbe, comunque, il tempo che trova.
Una volta accertata la possibilità’ di procedere, sapendo che, come ci ha ricordato l’Arcivescovo di Milano, Mons. Delpini, siamo “autorizzati a pensare”, possiamo chiederci se “impegno politico” e “partito politico” che evidentemente non sono sinonimi, siano, ciò nondimeno, due domini esattamente sovrapponibili, simmetrici e speculari o se, al contrario, vi sia tra i due uno scarto, una qualche asimmetria.
Ed, in effetti, si constata che è così.
“Fare politica” non è necessariamente esercitare un ruolo partitico oppure occupare una carica istituzionale elettiva.
Significa, anzitutto, quel “pensare politicamente” cui ci rinvia la lezione di Giuseppe Lazzati, parlamentare costituente e Rettore della Cattolica dal 1968, nel pieno della contestazione studentesca che a Milano trovò proprio in Largo Gemelli il luogo della sua espressione forse più cruda, ma anche intellettualmente meno scontata.
Ed è in quello scarto di cui si diceva sopra che si insedia quel “pensare” che quando dà conto di una lettura appunto “politica” del mondo, assume caratteri del tutto peculiari per cui, in ogni caso, ad esempio, non si lascia confinare nel limbo dell’ accademia, ma diventa, in qualche modo, “azione” già di per sé.
Insomma, “impegno politico” e “partito” rinviano l’uno all’altro necessariamente eppure si distinguono, secondo una connessione che è, ad un tempo, logica e cronologica.
Si potrebbe dire, insomma, che si distinguono quel tanto che consente loro di intrecciarsi e di stabilire quella sottile dialettica che – almeno per noi ed almeno in questa fase – è il punto focale da cogliere, cosicché l’impegno politico non venga prematuramente forzato dentro l’imbuto di una forma-partito che ne possa alterare la fisionomia originaria ed il partito non sia degradato a mero apparato organizzativo calato dall’alto, ma diventi il luogo di quel pensare “Insieme” che è. senza dubbio, un altro dei caratteri non rinunciabili di una riflessione che ambisca ad essere in se’ di valenza politica, come suggeriscono, ad esempio, molti spunti del recente articolo di Claudio Tagliaferri ( CLICCA QUI ).
In ultima analisi, una assunzione di effettiva responsabilità pubblica che giunga fino alla formazione di un partito che competa e si faccia misurare – sia pure come minoranza attiva, ma pur efficace – nell’ arena elettorale si renderà pur necessaria se vogliamo dar corpo ad una presenza politica ispirata cristianamente, ma a condizione che questa dimensione sia il portato fisiologico di una fermentazione che cresca dalla vitalità del corpo sociale
In definitiva, non si fa un partito mettendo il carro davanti ai buoi e tanto meno se qualcuno pensasse di decretarne in proprio la nascita, immaginando poi di inviare cartoline-precetto per arruolare la truppa.
Sarebbe un’ operazione grossolana e strumentale per cui molti scoprirebbero di essere renitenti alla leva.
Si tratta, al contrario, di far crescere uno spazio di libertà che dia forza e passione ad un impegno che effettivamente rinasce.
Domenico Galbiati
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