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Il popolarismo, il centro, la centralità – di Giancarlo Infante

In questo periodo di grande confusione politica, concettuale e pratica, non è male tornare alla radice dei termini utilizzati perché, così facendo, meglio si va alla sostanza di ciò che ciascuno intende presentare e rappresentare. Ciò vale a maggior ragione quanto tutto è ridotto mero verbalismo. Anche per una grande area che, da tempo, si è messa a parlare del “centro” ed è animata, pure, da chi dice di riferirsi al popolarismo.

Per quanto riguarda questo termine è utile andare all’articolo di don Luigi Sturzo pubblicato a Parigi, nel giugno del 1929 su “Il Pungolo” di Giuseppe Donati, intitolato, appunto, ” Il popolarismo”. Sturzo, riflette sul fatto che l’uomo ha “bisogno di parole sintetiche e astratte al medesimo tempo che indicano una sistemazione teorica” cui fare riferimento.

Il termine “popolare” fu coniato dallo stesso don Luigi. Egli volle evitare taluni equivoci sorti dopo la prima esperienza della Democrazia cristiana in Italia, quella legata a Romolo Murri, e possibili polemiche che avevano accompagnato altri movimenti d’ispirazione cristiana, nati già in precedenza al di fuori Italia, semplicisticamente indicati come partiti cattolici. Definiti tali perché emersi nel pieno di un vero e proprio radicale scontro che riguardava- ricorda Sturzo- la difesa del “culto pubblico, della famiglia e della scuola”. Il più violento fu quello che, nella Germania, sfociò nella Kulturkampf ( Battaglia culturale) costituita, come ammise lo stesso suo animatore,  il Cancelliere di Ferro Bismark , un prussiano di religione protestante, da un miscuglio di lotta di potere, visione conservatrice reazionaria, nazionalistica, anticlericale e anticattolica.

Il termine popolarismo, così, servì a ricollocare semanticamente un pensiero pubblico. Antropologicamente, culturalmente e politicamente specifico, destinato a trovare una propria elaborazione e a connotarsi pubblicamente in forma sempre più organizzata. Prima, per ciò che riguardava l’attività sociale sulla scia dell’insegnamento di Giuseppe Toniolo, e, poi, prendendo sostanza concreta sotto forma di partiti veri e propri, in Italia e in altre parti d’Europa.

Semplificando, molto semplificando, è come se venisse offerta la possibilità di perseguire una “terza via” di natura autonoma individuata dai cattolici, mossi da motivi storici e pratici, distinta rispetto sia alla cultura, alla visione socio – economica e politica del liberalismo, da una parte, sia a quella del nascente socialismo, dall’altra.

La precisazione lessicale, dunque, era funzionale alla chiarezza da raggiungere sull’insieme dei possibili significati cui la presenza pubblica organizzata dei laici cattolici potesse dare luogo. Come scrisse Sturzo nell’articolo citato, il popolarismo “conteneva in sé una sistematizzazione di idee politiche, come proprie e caratteristiche”. L’ex segretario del Ppi ne ricordò l’elenco  rifacendosi all’Appello ai liberi e forti di dieci anni prima per sottolineare in maniera particolare la necessità d’individuare una peculiarità di pensiero definita, in particolare, nella “teoria dello Stato” e dal concetto di libertà che non coincidono con quel liberalismo proprio dell’idea borghese e capitalista.

Il popolarismo non è dunque una “dottrina” religiosa. Bensì un pensare politicamente originale che avverte e distingue le differenze con altre visioni della cosa pubblica. Oggi, come del resto fu ai tempi di Sturzo nei confronti del dannunzianesimo e del fascismo, marca, per il valore che esso assegna alla solidarietà e alla capacità d’inclusione, la distanza anche rispetto al “populismo”. Così pure da quelle venature nazionalistiche, o regionalistiche o insanamente localistiche, animate da egoismo sociale e da chiusure demagogicamente aprioristiche nei confronti di fenomeni propri della nostra contingenza storica e della complessità del mondo contemporaneo i quali andrebbero, invece, affrontati senza abbandonarsi alle tentazioni della schematizzazione e della semplificazione.

Il popolarismo assume potenzialmente di per sé, perché sviluppa le proprie caratteristiche attraverso l’assunzione di un pensare programmatico e non ideologico, una connotazione centrale all’interno del quadro politico. Una caratteristica direttamente legata anche al metodo. In Italia molto fu dovuto soprattutto a De Gasperi e, poi, a Moro che resero viva e continua la cosiddetta cultura della  coalizione, sostanziata da spirito costruttivo e inclusivo.

E’ anche per questo se, ancora oggi, il popolarismo non si confonde con quei movimenti di conservatorismo cattolico incapaci a distinguere il piano religioso da quello politico e che finiscono, così, più o meno strumentalmente, per scegliere opzioni di destra. Non si confonde neppure con quella di natura opposta, che oggi quasi sostituisce la pulsione sociale con quella radicale, la quale sposa la visione individualistica e, più o meno inconsapevolmente, la insegue sul piano della esaltazione dei diritti parziali a scapito di quelli più generali afferenti, invece, il vivere comunitario.

Il popolarismo offre dunque una specificità che è differenziazione di natura sociologica e politica e non religiosa e per ciò rifugge da ogni rischio di clericalismo e di cattolicesimo conservatore. Precisa il significato autentico del richiamarsi ad un’ispirazione cristiana in politica che significa, assieme, privilegiare la Persona, la famiglia e le entità naturali sociali intermedie e, ciò facendo, arricchire con una ulteriore sensibilità antropologica la battaglia contro le disparità economiche e sociali.

Sono questioni attuali che pongono la sfida su cui ci si deve cimentare: cosa significa essere popolari oggi? cosa significa l’autonomia? in che modo è possibile affrontare quelle urgenze che hanno sempre attirato l’attenzione di un certo mondo come quelle della rappresentanza proporzionale, del decentramento e del ruolo delle autonomie, della questione fiscale, per meglio definire e rendere sempre più equa la progressività delle imposte, dell’internazionalizzazione della conoscenza e delle analisi?

Quando parliamo di autonomia lo facciamo sulla base di tre elementi sostanziali: primo, l’ispirarsi congiuntamente alla Costituzione e al Pensiero sociale delle Chiesa; secondo, da ciò deriva l’essere noi, per forza di cose, alternativi all’intero quadro politico ancora immerso nella logica bipolare degli ultimi 27 anni; terzo, una sostanza programmatica che rende diversi nei contenuti e nel metodo.

Verso la destra esiste un muro invalicabile formato dalla sua ostilità al progetto europeo, dalla sua distanza dalla tradizionale collocazione nell’ambito del mondo occidentale, dalle pulsioni nazionaliste e divisive sul piano interno e internazionale, dall’incapacità ad affrontare i gravi problemi dell’emigrazione provocati da rilevanti disequilibri mondiali, dalle politiche fiscali inique che non tengono conto del concetto della progressività, egoismo economico e geografico.
I motivi di alternatività rispetto a quello che definiamo centrosinistra hanno anch’essi la loro rilevanza. Abbiamo già accennato alla cosiddetta “radicalizzazione di massa” da tempo evidente. Si tratta anche di riconoscere che, nel corso di lunghi periodi di gestione della cosa pubblica nazionale e regionale, il centrosinistra ha seguito politiche funzionali all’allargamento della forbice tra ricchi e poveri e a indebolire la difesa del diritto al lavoro e la lotta al precariato.
Giancarlo Infante
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