Su queste pagine si è più volte sostenuto come sia del tutto illusorio, anzi francamente impossibile – per quanto molti ci credano o almeno fingano, in mancanza di meglio – costruire un polo progressista con i mattoni della destra.
E puntualmente ne abbiamo avuto la riprova grazie al voto contrario alla ratifica del MES espresso, la scorsa settimana, a Montecitorio, dal Movimento 5 Stelle, che coerentemente – questo gli va riconosciuto – alla sua natura populista si è allineato al sovranismo leghista che ha condotto la danza, assecondato dal nazionalismo di Giorgia Meloni (CLICCA QUI).
Non basta vantare – ed anche a tale proposito queste pagine hanno anticipato un giudizio scontato – presunte agende sociali, più o meno avanzate, per mascherare una cultura politica di fatto regressiva e dunque, non a caso, avversa all’Europa.
La politica, per quanto possa apparire caotica, incomprensibile e confusa, è più geometrica di quanto non siamo disposti ad ammettere. Ragion per cui, quando si giunge nei pressi di ciò che è il sentimento essenziale di una certa cultura politica e si va, dunque, ad una questione che ne tocca l’ effettiva ed ultima sostanza, è inevitabile che scattino quei riflessi consolidati ed antichi che rievocano la postura da cui quella certa forza ha ricevuto l’imprinting originario.
Sovranismo e nazionalismo nostalgico sono le figure aggiornate di un populismo che riemerge ogni qual volta la complessità di un determinato frangente storico non è attingibile da parte di criteri di valutazione e categorie interpretative che non tengono il passo dei processi in corso. Vale, anche sul piano dei fenomeni sociali e collettivi, la regola sovrana cui non può fare a meno di ricorrere ciascuno di noi individualmente. Non possiamo, cioè, evitare di attribuire alle cose, qualunque esse siano, un “senso”: siamo fatti per rintracciare in qualunque ordine di fenomeni un significato profondo che li tenga insieme, li giustifichi e ne dia conto.
Se non viene soddisfatta questa condizione previa, non siamo in grado di “conoscere” nel senso pieno del termine, quindi incapaci di “possedere” certe situazioni e da qui deriva una precarietà fastidiosa che, alla fin fine, fa deragliare il nostro vissuto. O questo “senso” che costantemente cerchiamo è ravvisabile nella fisionomia della cose così come ci si offrono nella loro nuda realtà, oppure siamo indotti a costruire da noi una certa impalcatura interpretativa, più o meno attendibile, più o meno soddisfacente, ma che sia una bussola almeno sufficiente ad orientarci nel mondo.
Si tratta di un’impresa non sempre facile, soprattutto perché richiede che a monte vi sia un pensiero forte e strutturato che oggi manca un po’ dovunque. Non deve, quindi, sorprenderci se, a questo punto, si impongono dei surrogati che apparentemente appagano questa fame di “senso”, a costo di banalizzare il tutto e smarrire il succo delle questioni in gioco.
La baldanza del populismo è tributaria di questa drastica, ingannevole semplificazione che, per lo più nelle forme del complotto e della caccia al nemico, oppure attraverso i modi suadenti della figura carismatica di turno, sembra svelare l’arcano di situazioni altrimenti indecifrabili.
E’ la vecchia storia del pifferaio magico. E solo la ricomparsa di culture politiche strutturate e forti, capaci di interpretare le trasformazioni in corso per ricondurle dentro una visione “sensata” del nostro domani potranno fermarne l’irruenza.
Domenico Galbiati