La “complessità” che un giorno sì e l’altro pure ricorre, in tutte le salse, in ogni discorso, come vogliamo considerarla? Una iattura o, piuttosto, una risorsa, un capestro oppure un’opportunità?
Si tratta di domarla ricorrendo a tattiche o artifici diretti a sfrondare e semplificare, anche drasticamente, l’intreccio spesso incomponibile di nodi, sovrapposizioni, contraddizioni che reca con sé, a costo di smarrire, pur di contenere la provocazione delle sue mille ramificazioni, anche il nocciolo essenziale delle questioni in gioco? Ad esempio, favorendo mode, stili di vita uniformi, momenti di conformismo, processi di allineamento acritico e di omologazione dei comportamenti, forme di “pensiero unico” che piacciono tanto ai cultori dell’ “uomo forte”, nella misura in cui è più facile condurre le masse al guinzaglio, piuttosto che interloquire con l’autonomia di giudizio delle persone?
Oppure, al contrario, un po’ come fanno gli indiani quando appoggiano l’orecchio al suolo per sentire da lontano lo scalpiccio dei cavalli di un drappello che si avvicina, anche noi, dobbiamo, anzitutto, “sentire”, ascoltare e decifrare l’onda montante della complessità che cavalca incontro a noi ed al nostro tempo e si impone come un suo carattere incontrovertibile?
Che messaggio reca con sé? In che modo ci sfida, cioè sfida noi, la nostra intelligenza, ben più che non la sua contraffazione “artificiale”? Cosa ci dice di questo nostro tempo incerto e sghembo che arranca alla ricerca di una fisionomia, di una “cifra” che, superata la boa della modernità, gli consenta di definirsi, di darsi una qualche comprensione di sé stesso? Quale impianto deve avere una cultura politica perché sia in grado di orientare, se non governare, quell’ “accadere” di eventi che, a cascata, si abbattono quotidianamente dentro le nostre vite? Con un impeto, un’accelerazione, una forza d’ impatto, sostenute dalla consequenzialità intrinseca alla tecnica, che precede di gran lunga la nostra capacità di maturare criteri etici ed apparati operativi in grado di sostenere un simile urto?
Non è forse questa la sfida che le democrazie occidentali devono affrontare se non vogliono andare incontro ad un progressivo restringimento delle condizioni di libertà, autonomia e responsabilità personale del singolo cittadino che fatalmente tradisca il loro ideale originario ed il loro orientamento connaturato – per quanto così spesso disatteso – alla giustizia sociale?
Le democrazie occidentali non devono temere il braccio di ferro con le cosiddette “autocrazie”, destinate, prima o poi, a rivelarsi giganti dai piedi d’ argilla, ma piuttosto un cedimento strutturale, una dissipazione delle loro risorse vitali che porti ad un lento, ma inarrestabile sfarinamento, dal di dentro, della loro ragion d’essere.
Per quanto riguarda i cattolici – almeno quelli che si riconoscono nella cultura liberal-democratica e popolare, non integrista, non incline al clerico-moderatismo – la questione, ancora oggi così viva, del loro possibile ruolo politico nel nostro Paese, si risolve “intra-moenia”, cioè cantandosela tra loro o non, piuttosto, misurandosi, in aperta dialettica con altri e differenti indirizzi culturali, con la propria maggiore o minore attitudine ad interloquire efficacemente con la complessità del nostro tempo?
“Moderazione” è una parola, un concetto tradito dall’uso e dall’abuso che se ne è fatto soprattutto nel lessico politico.
Ha finito per diventare ambigua e suggerire un’idea di compromesso piuttosto che di mediazione, di accondiscendenza piuttosto che di franchezza, di timidezza piuttosto che di coraggio, di parzialità piuttosto che di visione organica e complessiva, di attenzione alla particolarità degli interessi piuttosto che alla loro composizione nell’ interesse generale della collettività.
In altri termini, l’impressione di un tergiversare, un traccheggiare tra un’opzione e l’altra, un po’ per inerzia, un po’ per eccessiva prudenza, un po’ per opportunismo, un po’ per un certo fatalismo, ed ancora un’ idea di conservazione piuttosto che di sviluppo e di progresso, pur con tutta la cautela con cui quest’ ultima parola scivolosa – progresso – andrebbe analizzata.
E’ tempo di riconvertire l’opacità calata su tale concetto e riportare la “moderazione” al suo significato proprio, al suo valore etimologico ed originario, credo si debba dire alla sua declinazione “morotea”, così alta e diversa da altre che pure la Democrazia Cristiana ha conosciuto come, tuttora, taluni suoi epigoni, per accorgersi del potenziale letteralmente “rivoluzionario” che oggi può assumere nell’ era della “complessità”, come archetipo di quello sguardo nuovo e di quella capacità di “trasformazione” di cui abbiamo urgente bisogno e che il Manifesto di INSIEME (CLICCA QUI) evoca fin dai nostri primi passi.
“Moderazione” vuol dire, infatti, realismo e “senso della misura”, consapevolezza del limite. Significa “salvare il fenomeno”, secondo l’insegnamento degli antichi, anziché rivestirlo di orpelli e di presupposti ideologici, per piegarlo al proprio pensiero precostituito. Considerando, peraltro, che quanto più il contesto in cui ci muoviamo è frammentato, tanto più il luogo privilegiato della “composizione del conflitto”, della “reductio ad unum”, lo spazio della sintesi possibile è dato, anzitutto, dall’interiorità di ciascuno, dalla responsabilità personale, si dovrebbe dire dall’ intensità vissuta nel tempio della coscienza di ognuno.
Non si tratta di cedere ad una concezione intimistica della politica, ma è necessario sapere che non vi sono architetture istituzionali, programmi politici presuntivamente di alto profilo che siano, di per sé, quasi magicamente risolutivi delle strette del tempo che viviamo, se non sono compresi, condivisi, fatti propri dalle persone, secondo la loro libera, autonoma, critica facoltà di giudizio. In altri termini, la possibilità di governare la complessità, anziché subirla, esige un processo di straordinaria maturità civile che investa “ad personam” ciascun cittadino. Siamo, cioè, esattamente agli antipodi dell’ “uomo solo al comando” e ci salviamo solo al prezzo di un diffuso, ampio, importante processo di partecipazione e di coinvolgimento democratico.
Detto altrimenti, la cultura di impronta personalista che il cattolicesimo democratico incarna, fondata su principi e valori che non possono essere ossificati nelle forme di un pensiero ideologico, anzi configurano un sistema “aperto” di approccio al mondo, ha molte leghe di vantaggio, per quanto concerne l’attitudine ad interpretare e guidare il tempo della post-modernità, rispetto a culture di matrice ideologica. Del resto, la tentazione di adattarsi alla comoda nicchia di un pensiero ideologico è una costante che ricorre più di quanto oggi non siamo disposti ad ammettere, ma anche su questo si renderà necessario tornare.
Domenico Galbiati