La richiesta di finanziamento della Fca per 6,3 miliardi di euro, all’80% garantito dalla Sace,e quindi, dal Tesoro tramite la Cassa depositi e prestiti e, quindi, dai soldi degli italiani, è già oggetto di dibattito tra le forze politiche e quelle sociali.
Tanta la sua importanza che, in effetti, ha già portato a una mezza rivoluzione nel giornalismo italiano con il cambio della direzione de La Repubblica e de La Stampa, oltre che a creare due diversi campi contrapposti in cui si schierano tutti gli organi d’informazione.
E’ questione, in realtà, che non può essere affrontata senza tenere conto del fatto che introduce complesse valutazioni, non sempre in grado di fornire una risposta univoca perché portano a parlare di politica industriale e delle conseguenze per una parte importante del tessuto economico italiano.
Questo vuol dire riferirsi ai posti di lavoro e, probabilmente, compromettere addirittura il permanere dell’Italia in un settore produttivo qual è quello del cosiddetto “automotive” e del suo indotto. Vuole dire anche affrontare tanti aspetti su cui richiamano l’attenzione le forze sociali e sindacali e persino il Governo che, attraverso il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri ( CLICCA QUI ), ricorda la necessità d’affrontare la questione sulla base di “ condizioni stringenti” cui ottemperate perché non si tratta di un regalo, bensì di un prestito.
I sindacati mostrano alcune difformità di vedute. Si va dalle posizioni di estrema disponibilità a quelle che accentuano la già precisata richiesta di garanzie avanzate dal ministro Gualtieri, memori delle vicende del passato quando grossi gruppi industriali, in particolare la Fiat, allora tutta esclusivamente italiana, venivano accusati di “pubblicizzare” le perdite e “privatizzare” i profitti. Intanto, a lungo, la galassia Fiat si muoveva sulla base di due diverse visioni, persino antitetiche tra di loro, sull’opportunità di mantenere o meno la presenza nella produzione automobilistica e, quindi, lasciare in vita gli stabilimenti produttivi in Italia.
Una strada diversa venne trovata con l’arrivo sulla scena di Marchionne il quale, però, ha di fatto ha segnato l’abbandono dell’Italia da parte della Fiat, fino a farla divenire Fca con la fusione con la Chrysler, soggetto più che mai multinazionale: con la residenza fiscale a Detroit, da un lato dell’Oceano Atlantico, e in Olanda su quest’altra sponda. Insomma, il finanziamento richiesto all’Italia viene avanzato da un soggetto che ha, sì, impianti in Italia, ma non è più italiano.
L’assetto e la sistemazione fiscale societaria della Fca è destinata a cambiare nuovamente a seguito della fusione con le Peugeot ( CLICCA QUI ) che potrebbe comportare un probabile trasferimento della sede legale, e quindi del luogo dove vi sarà l’assoggettamento d’imposta, a Parigi.
Vi è dunque un ulteriore aspetto da affrontare: quello delle tasse pagabili dal quarto più grande produttore al mondo di automobili e terzo in base al fatturato. Da notare che adesso è Fca a chiedere il finanziamento perché la fusione effettiva con la Peugeot diverrà effettiva a partire dal 2021. L’Italia, dunque, deve sostenere oggi un soggetto che diventerà sicuramente un’altra cosa nel giro di 10 12 mesi. Si tratta di 6,3 miliardi di euro che costituiscono poco meno del doppio di quella “sinergia” messa in campo dai due gruppi in fusione per un ammontare di 3,7 miliardi.
E’ evidente, allora, che il problema del prestito richiesto diventa questione geopolitica, oltre che produttiva ed economica in sé e che, quindi, richiede un tasso di riflessione in più perché va a incidere anche sui futuri rapporti “concreti” che riguardano le relazioni all’interno dell’Europa, che tanto contano nella complessiva definizione del suo futuro.
Credo che il modo di non smarrire la bussola del ragionamento sia, allora, quello di riferirsi alla necessità di individuare una vera politica industriale che da un pezzo manca al nostro Paese. Nei decenni scorsi troppo si è arrancato nel tentativo di conciliare spinte e controspinte animate da interessi particolari, da alleanze internazionali di grandi gruppi, spesso condotte in maniera ondivaga com’è stato nello stesso caso della Fiat passata dall’alleanza con la Renault, a conferma degli stretti legami che la famiglia Agnelli ha sempre avuto con il sistema economico finanziario d’oltralpe, a quella quasi subito naufragata con la General Motors.
Non si tratta pertanto di chiamare ad esprimere un sì o un no su un prestito che, tra l’altro, le norme europee consentono di richiedere, e che comunque sta al Governo coprire con una garanzia pubblica. Il vero problema è come questo prestito possa essere parte di una più ampia visione strategica nazionale, cioè di quel Piano industriale che l’Italia non è mai stata in grado di darsi, Si tratta, allora, di guardare ai sani interessi nazionali.
Questo Governo, il quale purtroppo manca di una capacità “sostitutiva” in tal senso da parte del Parlamento tanto diviso esso appare, non è nelle condizioni di pensare ad un Piano tanto impegnativo, anche perché dovrebbe avere un respiro multi decennale che abbisogna di una stabilità politica e sociale ben lontana dall’essere assicurata in questa legislatura.
Ecco, c’è da chiedersi se questioni come questa non possano vedere, invece, un diverso atteggiamento da parte della maggioranza e di quella opposizione che su questioni come queste può uscire dalle sterili affermazioni propagandistiche sulla “sovranità” e portare un serio contributo alla difesa del Paese e dei suoi interessi.
Anche la definizione di un Piano industriale può costituire il terreno su cui si misura la reale intenzione di un’intera classe politica di rinnovarsi e, con essa, avviare un indispensabile processo di trasformazione dell’intero Paese.
Giancarlo Infante