La cronaca ha registrato, nel breve volgere di un mese, due episodi di una violenza feroce, perpetrati da giovani,
Delitti, ad un tempo, diversi ed uguali, cruenti; il sangue versato; la morte data in un contatto fisico diretto, immediato con la carne della vittima, a gustarne il dolore; squarciando i corpi con il pugnale, come per aprire varchi da cui trarne fuori la vita, per nutrirsene, per affermare il potere tremendo di concederla o, piuttosto, di dare la morte; il potere più grande che si possa immaginare; un potere che sembra proiettare oltre la misura dell’ umano, verso l’hybris dell’onnipotenza.
Delitti che pongono domande cui non si può sfuggire sugli abissi inaccessibili, insondabili della mente e del cuore umano. E non di meno, su quali e dove siano, come si siano formate e come vengano ancora alimentate, nel cuore delle nostre comunità, aree di necrosi sociale ed educativa, deserti di solitudine talmente devastanti da generare, si potrebbe dire, la variante antropologica del “mostro”.
Ma è davvero così ? Aree circoscritte?Basta scoprire il colpevole per enuclearle, asportarle chirurgicamente, come fossero sacche purulente, per restituire la smarrita armonia al corpo sociale? Basta scoprire l’assassino perché davvero sia resa giustizia e ogni casella torni al suo posto in un equilibrio sostanzialmente ancora vivibile?
I fatti sono successi a Terno d’Isola, un tiro di schioppo da Bergamo, otto migliaia di abitanti che si conoscono tutti; terre dove, tutt’attorno, una volta imperava la Democrazia Cristiana e oggi primeggia la Lega, e i bergamaschi sono rimasti quelli di sempre: gente buona come il pane, cui la fatica e il lavoro non ha mai fatto paura, intrisi di una concezione cristiana della vita, perfino quelli che non lo sanno, non vanno più a Messa o credono di aver perso la fede.
E a Paderno Dugnano, su per giù cinquantamila abitanti, cintura metropolitana Nord di Milano. Luoghi tutt’altro che economicamente o socialmente degradati: comunità attive e fiorenti.
È forte – ed, infine, comprensibile? – la tentazione di ricorrere al paradigma del “mostro”. La giustizia umana, ovviamente, deve fare il suo corso, senza sconti e senza indulgenze, con la fermezza e la severità che delitti talmente efferati meritano. Eppure, una domanda resta: cosa ne facciamo delle vite spezzate dei due giovani assassini? È irriguardoso per le vittime farsi una domanda sui loro carnefici? Ricorriamo ancora, come l’umanità fa da sempre, al rito catartico e consolatorio del “capro espiatorio”? È così che riguadagniamo la nostra innocenza? In altre forme, meno cruente, senza sgozzare la vittima sull’altare del sacrificio, ma, pur sempre, ancora assecondando questa legge atavica.
Non è così soprattutto laddove vige ancora la pena capitale? Rene’ Girard ci ricorda che solo Cristo, accettando volontariamente il sacrificio della croce, ha letteralmente ribaltato questo paradigma ed è per questo che il cristianesimo è davvero la novità radicale che irrompe nella storia e spezza le catene della colpa e della dannazione.
Il fatto che la giustizia umana debba fare il suo corso non toglie legittimità all’invito evangelico : “non giudicate e non sarete giudicati”. Non è forse, oltre che un precetto per chi crede, per tutti una regola di buon senso comune? Non è possibile penetrare con la ragione il labirinto di pensieri e di umori, i sentimenti contorti e le ossessioni che possano dar conto della mente dell’assassino.
Sarebbe necessaria quella conoscenza pre-concettuale, fondata su un’empatia talmente profonda da non stare nel potere degli uomini. Ci dev’essere una regione ultima della coscienza dove il mistero della libertà sfugge ad ogni categoria del giudizio umano e dove solo la luce dell’ Assoluto può penetrare. Ma, per quanto sta a noi, siamo disponibili a riconoscere nel “mostro” la traccia indelebile della nostra comune umanità?
Domenico Galbiati