Con una certa regolarità in Italia si torna a parlare di presidenzialismo o semipresidenzialismo. Dal fronte di Fratelli d’Italia fu avanzata nel 2018 una proposta di legge di revisione costituzionale e ora ancor più autorevolmente da parte della presidente del Consiglio si ripete che il presidenzialismo (ma forse si vorrebbe dire semipresidenzialismo?) sarebbe l’opzione da adottare. Trattandosi di una riforma costituzionale di notevole portata le domande da porsi sono: 1. Quale è il problema che si vuole risolvere; 2. Lo strumento ipotizzato è quello più adatto? 3. Questo strumento potrebbe avere controindicazioni significative?
Quale è il problema? Quali ragioni vengono portate per chiedere l’elezione diretta del capo dello stato e il semipresidenzialismo? Come ha detto con chiarezza Meloni nella sua conferenza stampa di fine anno le ragioni sono: 1. assicurare stabilità ai governi e 2. avere governi che siano frutto della indicazione popolare. Due ragioni non banali, avanzate negli ultimi anni da molte parti e alle quali si è cercato di rispondere senza grande successo con riforme del sistema elettorale. Non viene menzionata invece la qualità del capo dello stato, forse anche perché questo aspetto non sembra così rilevante poiché con il sistema attuale l’Italia è riuscita negli ultimi decenni a dotarsi di capi dello stato di notevole prestigio e capacità di fronteggiare con autorevolezza le crisi.
Lo strumento ipotizzato. Prima di tutto chiariamo la differenza tra presidenzialismo e cosiddetto vice-presidenzialismo. Entrambi comportano l’elezione diretta del capo dello stato, ma nel caso del primo il presidente è anche il solo vertice dell’esecutivo, cioè è contemporaneamente capo dello stato e capo del governo. Nel secondo invece è presente anche un presidente del consiglio dei ministri che deve contare sulla fiducia del parlamento. Aggiungiamo che il primo modello, esemplificato dagli Stati Uniti, ma anche da gran parte dei paesi dell’America latina, toglie al parlamento il potere di sfiduciare il capo dello stato (se non per via giudiziaria, o impeachment) e al capo dello stato di sciogliere il parlamento, realizzando così una netta separazione tra i due poteri. A coloro che parlano di questo modello ricordiamo che, come insegna il caso statunitense, il potere del presidente è poi fortemente limitato (in sede legislativa) da un Congresso (il parlamento) nettamente autonomo e che può esprimere maggioranze opposte (e lo fa spesso). Nei fatti il presidente è tutt’altro che onnipotente.
Poiché mi sembra si voglia parlare di semipresidenzialismo diamo uno sguardo intorno a noi. Limitandoci agli stati europei l’elezione diretta del presidente non è certo una rarità, anzi è in via di netta crescita. Ben diciannove paesi lo adottano oggi, mentre in un numero più limitato (9) il capo dello stato è eletto dal parlamento. Poi naturalmente ci sono i paesi monarchici (8) che si basano sulla successione ereditaria di un monarca fortemente depoliticizzato. Solo Cipro adotta un modello di presidenzialismo pieno. Oltre alla Francia, l’Austria, la Bosnia Erzegovina (ma con una presidenza a tre), la Bulgaria, la Croazia, la Finlandia, l’Irlanda, l’Islanda, la Lituania, il Montenegro, la Macedonia del Nord, la Polonia, il Portogallo, la Repubblica ceca, la Romania, la Serbia, la Slovenia, la Slovacchia e l’Ucraina adottano il primo modello.
Ebbene, tra tutti questi paesi in pratica solo la Francia funziona veramente secondo il modello che in Italia ci si immagina, cioè con un presidente della repubblica che è anche la guida politica del paese e al quale il governo è subordinato. Dunque la Francia è l’eccezione più che la norma! Negli altri paesi troviamo un presidente eletto popolarmente ma il governo si forma sulla base dei risultati delle elezioni parlamentari e delle maggioranze che si formano in parlamento. I leader di partito puntano ad affermarsi come primi ministri attraverso le elezioni parlamentari, piuttosto che candidarsi come presidenti.
Prima conseguenza, il ruolo politico del governo non è subordinato a quello del presidente, seconda conseguenza la configurazione politica del governo potrà essere diversa da quella del presidente. E in più sotto uno stesso presidente si possono avere diverse formazioni di governo a seconda delle coalizioni che si formano o disfano in parlamento. Dunque i due obiettivi per i quali Meloni propone il semipresidenzialismo non dipendono dall’elezione diretta del presidente ma dal sistema dei partiti. A seconda dei casi ci potrà essere stabilità o instabilità; quanto a “governi frutto dell’indicazione popolare” avverrà esattamente quello che avviene nei sistemi parlamentari. In alcuni casi l’indicazione popolare sarà chiara, in altri saranno le trattative tra i partiti in parlamento a decidere.
Ma se si realizzasse il modello francese? La domanda è allora come si riesca a riprodurre questa eccezionalità. Il punto merita di essere chiarito per i nostri aspiranti riformatori. Qualcuno dirà che tutto sta nei poteri stabiliti nelle rispettive costituzioni. In realtà il ruolo politico forte del presidente francese deriva da come il modello “è partito” all’inizio e poi si è sviluppato e dalla conformazione del sistema politico-partitico. La “trazione presidenziale” del sistema è stata costruita all’origine grazie alla figura politicamente dominante di De Gaulle, alla grave crisi dei partiti francesi della IV repubblica e al fatto che i nuovi partiti della V Repubblica sono stati nel tempo costruiti e ricostruiti intorno alle ambizioni e prospettive presidenzialiste di una serie di leader politici. Da De Gaulle a Macron, i leader con aspirazioni presidenziali hanno plasmato i partiti piuttosto che il contrario. In altri paesi invece i partiti, più solidi, e i loro leader hanno preferito giocare la loro partita (spesso anche per esigenze di coalizione) in parlamento e quindi hanno lasciato le elezioni presidenziali a figure politiche meno importanti. Per realizzare il semipresidenzialismo alla francese non basta dunque riscrivere le norme della costituzione.
Conviene inoltre ricordare che anche il caso francese ha presentato in passato situazioni nelle quali il presidente si è trovato a dover coesistere con una maggioranza parlamentare di colore opposto, oppure con un una maggioranza che non dominava completamente. La saggezza dei presidenti Mitterrand e Chirac e la loro disponibilità a lasciare spazio ai primi ministri hanno consentito coabitazioni relativamente tranquille con un governo di diverso orientamento politico (che ha assunto pienamente la guida politica). In altri paesi europei presidenti con ambizioni politiche meno controllate si sono trovati impegnati in conflitti istituzionali con governi che si rifacevano a maggioranze parlamentari antagoniste. Con risultati non proprio positivi.
In sintesi dunque e pensando anche ai nostri “riformatori” possiamo fissare questi punti: a. introdurre l’elezione diretta del presidente non garantisce un “semipresidenzialismo alla francese” se non ci sono le stesse peculiari condizioni favorevoli; b. nella maggior parte dei casi il “semipresidenzialismo” funziona come un parlamentarismo classico con l’unica differenza (poco rilevante) che il presidente è eletto dai cittadini e non dal parlamento; c. esiste la possibilità tutt’altro che remota che tra un presidente eletto direttamente e un capo del governo espresso dalle elezioni parlamentari si inneschino tensioni e conflitti se le due parti non hanno la saggezza di accettare una convivenza politica concordata.
Le ragioni per intraprendere la sempre complicata e spesso conflittuale strada di una riforma costituzionale sembrano quindi molto ridotte, tanto più che in Italia la Presidenza della Repubblica, anche se eletta indirettamente, ha svolto un ruolo non irrilevante e generalmente positivo nella vita politica utilizzando semplicemente i principali poteri riconosciuti dalla Costituzione, cioè il potere di nomina del capo del governo, quello di nomina dei ministri e quello di rinvio al parlamento delle leggi. Soprattutto occorre notare che se questi poteri sono rimasti formalmente invariati nel tempo è variata invece a seconda delle situazioni la pregnanza politica del loro impiego. Parliamo soprattutto dei poteri del Presidente a riguardo del governo, tema che oggi assume una importanza particolare. L’esperienza di questi ultimi anni ha mostrato che tutte le volte che i partiti del parlamento non sono stati in grado di costruire una maggioranza di governo capace di affrontare una situazione di grave crisi e hanno avuto timore di affrontare elezioni anticipate è stato il Presidente della Repubblica ad assicurare una supplenza e a pilotare una soluzione di forte caratura attraverso l’incarico ad una figura indipendente di alto prestigio capace di costruire una larga maggioranza. E’ stato così con i governi Ciampi, Monti e infine Draghi. Ma i capi dello stato sono intervenuti anche in maniera meno clamorosa scartando alcune nomine di ministri ritenute poco affidabili e garantendo la fedeltà del paese ai suoi impegni internazionali.
C’è da chiedersi allora se l’iniziativa sul semipresidenzialismo sia una bandiera da sventolare piuttosto che un meditato progetto volto a migliorare il funzionamento del sistema istituzionale italiano
Appendice. La proposta di FDI del 2018
In attesa del progetto che verrà presentato, guardiamo intanto la proposta di legge di Fratelli d’Italia dell’11 giugno 2018 per capire se le questioni qui sollevate siano chiare ai proponenti (tra i quali anche il presidente del consiglio Meloni).
In vari articoli si afferma il ruolo di guida del governo del Presidente della Repubblica (art 83: il “Presidente rappresenta l’Italia in sede internazionale ed europea; art. 92: “il Presidente presiede il Consiglio dei Ministri; art. 95 “il Presidente dirige la politica generale del governo e ne è responsabile [ma come?]. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri con il concorso del primo Ministro”). Si vuole quindi un Presidente governante.
Poco o nulla cambia invece sullo scioglimento del Parlamento e su presidenza del Consiglio di Difesa e dichiarazione di Guerra (art. 87 e 88 riformati); si aggiunge solo il Consiglio supremo per la Politica Estera.
E veniamo all’altra componente del governo del paese, cioè il Consiglio di ministri. Qui l’innovazione non è nella nomina del Primo Ministro o dei ministri, che ricalcano l’attuale costituzione, ma nel rapporto tra governo e parlamento. Seguendo il modello francese (ma non solo…) non è considerata obbligatoria la fiducia espressa del parlamento, basta quella implicita cioè l’assenza di una mozione di sfiducia. Sarebbe quindi più facile avere governi di minoranza (soprattutto se le opposizioni sono divise e bilaterali), che però dovranno poi ottenersi una maggioranza nei normali voti in parlamento. Circa la sfiducia si introduce stranamente la cosiddetta sfiducia costruttiva (usata in un sistema parlamentare come Germania). In base a questa chi presenta la mozione deve indicare il nome del prossimo capo del governo. Non sembra che gli estensori del progetto si siano accorti che se la mozione passa il Presidente sarà quindi spogliato del potere di scegliere il capo del governo!
In ogni caso, sia dopo normali elezioni che diano una maggioranza diversa dal colore del Presidente della Repubblica che in caso di sfiducia costruttiva, nulla potrebbe impedire che si prospetti un governo di diverso orientamento politico del Presidente. Vorrà sempre il Presidente sciogliere le camere o invece la coabitazione sarà una possibilità concreta e allora il ruolo intrusivo assegnato al Presidente nella gestione del governo costituirà più una fonte di conflitto che uno strumento per dare chiarezza di governo al paese?
In conclusione per ora la progettazione del semipresidenzialismo appare alquanto confusa.
Maurizio Cotta
Pubblicato su Il Domani d’Italia