Quello che segue è il contributo di Alessandro Risso all’approfondimento in corso da parte di INSIEME in materia di Giustizia, coesione sociale e sviluppo possibile (CLICCA QUI)
Non è inutile avviare il discorso richiamando la definizione di “coesione sociale”. Traggo da Wikipedia: “indica l’insieme dei comportamenti e dei legami di affinità e solidarietà tra individui o comunità, tesi ad attenuare in senso costruttivo disparità legate a situazioni sociali, economiche, culturali, etniche”. Google sintetizza così: “la coesione sociale è la capacità di una società di assicurare il benessere della collettività sulla base di relazioni sociali forti e di un’appartenenza territoriale ben definita”.
Da questi essenziali concetti si capisce bene che la “coesione sociale” è strettamente connessa all’idea di “comunità”. Anche in un Paese come l’Italia, molto variegato nel territorio e nelle culture, il senso di appartenenza alla comunità locale è sentito ovunque e allo stesso modo. Non va taciuto che questo senso di appartenenza si è indebolito nell’era dell’individualismo esasperato, ma dello sfilacciamento dei legami sociali – familiari, associativi, sindacali, politici – sono evidenti i guasti, in primis l’aumento delle diseguaglianze e della povertà, e la perdita di dignità del lavoro. Per recuperare l’indispensabile coesione sociale serve ripartire dalla base, ancor solida, del senso di appartenenza alle comunità locali, un sentimento comune che va articolato in un armonico ed efficiente sistema di Autonomie locali, che sono il fondamento della nostra Repubblica.
La Costituzione, al Titolo V, deve semplicemente essere attuata. La Repubblica è costituita “dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, prevedendo una virtuosa collaborazione ispirata al principio di sussidiarietà.
Questa struttura di Autonomie locali richiede solo interventi legislativi sul sistema di finanziamento e spesa affinché diventi coerente con la Costituzione, con un’impostazione ispirata ai principi di solidarietà e responsabilità fiscale.
Non a caso il primo Ente elencato in Costituzione è il Comune: in quanto più prossimo al cittadino – alla “persona”, alle famiglie – è il primo nucleo della comunità civile. Il Comune – il Municipio, per Luigi Sturzo – avvicina l’amministrazione della cosa pubblica ai cittadini, li coinvolge nelle scelte, sviluppa e valorizza il senso civico. È la cellula fondamentale dello Stato, con il potere di governare la prossimità. Nel nostro Paese esistono oltre 8000 Comuni: di questi solo un centinaio hanno più di 60mila abitanti, il 70% ne ha meno di 5mila, e di questi circa 2000 non arrivano a mille anime. Anche i più piccoli sono tutti una grande ricchezza, un indispensabile presidio del territorio, soprattutto nelle aree montane e collinari. Vanno tutti sostenuti, sia ribadendo il ruolo etico e sociale della municipalità, sia promuovendo le Unioni tra Comuni nell’erogazione dei servizi ai cittadini, per garantire anche nei luoghi più periferici accettabili livelli di vita da parte dell’Ente deputato a governare la prossimità.
Si potrebbe obiettare che in un piccolo comune è più facile ricreare la coesione sociale: tutti più o meno si conoscono, vengono coinvolti dalla Pro Loco, dalla Banda, dalla Sportiva, dall’AIB, dalla Parrocchia. In una grande città i rapporti tra persone sono ridotti, si vive ammassati in condomini dove spesso non si conosce il vicino di pianerottolo. Osservazione corretta, che richiederebbe un approfondimento in più direzioni. Mi limiterei a dire che nelle grandi città bisogna lavorare e investire a livello di quartiere, dove continua ad esserci un diffuso senso di appartenenza non dissimile da quello dei piccoli comuni.
Se il Comune è il fondamento di un sistema delle Autonomie rivolto alla coesione sociale, va tenuto ben presente che non può bastare l’Ente di prossimità. Vi sono problemi che interessano l’area vasta, che il singolo Comune non può affrontare e risolvere da solo. Allora – secondo il principio di sussidiarietà che prevede di assegnare al livello organizzativo più vicino al cittadino tutte le competenze che tale livello è in grado di svolgere adeguatamente – a salire avremo le Unioni di Comuni associati, poi la Provincia o la Città Metropolitana. Un Ente di governo dell’area vasta, legittimato dal voto popolare, deve esistere, come avviene nella quasi totalità degli Stati avanzati. Non lo è la Regione che ha un ruolo legislativo – nell’ambito delle competenze previste dalla Costituzione – di programmazione, finanziamento e controllo, e non deve assumere compiti amministrativi e gestionali.
La Provincia o la Città metropolitana (in certi casi, come il caso di Torino, più correttamente definibile “Provincia metropolitana”) è il necessario Ente di governo delle tematiche di area vasta: gestione dei rifiuti, dell’ambiente, delle acque, dei trasporti, della rete viaria intercomunale, delle infrastrutture, delle reti informatiche, del mercato del lavoro, delle scuole superiori e professionali, dello sviluppo locale, ecc. Sono tutte problematiche che possono venire efficacemente gestite solo in un ambito territoriale ampio e omogeneo. Non se ne possono occupare i Comuni, troppo piccoli e non strutturati, non se ne devono occupare le Regioni, che hanno un altro compito e che rischiano di essere ipertrofiche e “ministeriali” sommando al proprio ruolo anche funzioni gestionali.
Un Ente che governa i temi di area vasta, intermedio tra la comunità locale – sia essa un paesino o una città – e la grande Regione esiste in tutti i Paesi sviluppati. Ad esempio, in Francia c’è il Département, in Spagna la Diputacion, nel Regno Unito e negli Stati Uniti la Contea (County), in Germania il Kreise, in Polonia il Distretto (Powiaty). In Italia le Province vennero istituite nel lontano 1859 e rimangono ancora oggi un Ente costituzionale, essendo per fortuna sopravvissute alla fallita riforma Renzi-Boschi (bisogna solo liquidare gran parte della nefasta Legge Delrio), e vanno ripristinate come Enti di area vasta. Occorre prevedere parametri di territorio, abitanti e numero di Comuni (ad esempio, almeno un centesimo della superficie, della popolazione e dei Comuni italiani) che portino all’accorpamento di Province oggi esistenti tra loro per una più omogenea copertura territoriale e una maggiore efficienza. Province piccole non rispondono a esigenze di numero e professionalità della tecnostruttura, che deve poter contare su dirigenti tecnici e amministrativi di grande competenza e affidabilità (pensiamo alle difficoltà nel progettare e realizzare le opere dei fondi PNRR…). La Provincia dovrebbe anche diventare un Ente appaltante a servizio dei Comuni, e il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe utilmente modellare le ASL sui confini provinciali. Ogni Provincia potrà poi organizzare la propria presenza e attività sulla base di aree omogenee, rappresentate dai Sindaci dei Comuni interessati, che potrebbero riprendere la breve ma significativa esperienza dei Comprensori. Un solido Ente territoriale di area vasta con importanti compiti di governo, da un lato richiede il controllo democratico dei cittadini con l’elezione diretta degli amministratori ad ogni quinquennio; dall’altro rende superflui tanti Enti intermedi monofunzionali – circa 8000 in tutta Italia – come le ATO per acque o rifiuti o altri Consorzi variamente finalizzati, spesso inutili e con i conti in rosso. L’abolizione della maggior parte di tali Enti da un lato rafforzerà il ruolo delle Province e dall’altro produrrà un importante risparmio sui costi della politica.
Il populismo al governo, imperante nell’ultimo decennio, ha invece partorito il pasticcio dell’abolizione delle Province che, una volta fallita, ha provocato il caos negli Enti intermedi e fatto sì che le Regioni assumessero sempre maggiori competenze gestionali per loro improprie, diventando ancor più ipertrofiche. Un equilibrato sistema delle Autonomie locali rifugge sia il centralismo statale sia il neocentralismo regionale. Le Regioni devono quindi “dimagrire” girando coerentemente alle Province molte sacche residue di gestione amministrativa, evitando anche inutili sovrapposizioni di competenze.
Riportando le Regioni al loro compito costituzionale e attuando una più forte autonomia attraverso il principio della responsabilità fiscale, perdono di significato le Regioni a Statuto speciale (almeno quelle non collegate a trattati internazionali) che nel corso dei decenni hanno già visto venir meno in gran parte le ragioni della loro diversità. Tutte le Regioni devono avere ampia autonomia nel rispetto delle norme costituzionali, per nessuna dovrebbero essere giustificati privilegi rispetto alle altre. Forme di “autonomia regionale differenziata” non hanno ragione di essere in un sistema di Autonomie che ha a cuore l’unità del Paese, la sua solidarietà e coesione sociale, l’omogeneità di servizi per il cittadino, le famiglie, le imprese in tutto il territorio nazionale.
Alessandro Risso