Nella giornata di martedì 2 gennaio, la radio di Hamas annunciava che un drone lanciato da Israele contro un quartiere della periferia occidentale di Beirut aveva colpito una sede nella quale si trovava Saleh al-Arouri, capo dell’ufficio politico e numero due di Hamas, uccidendolo insieme ad altre sei persone. E’ stata la prima volta dal 2006 che Israele colpiva Beirut. Al-Arouri è il più alto dirigente di Hamas colpito dall’inizio dell’operazione a Gaza ed era considerato uno dei principali avversari dello Stato Ebraico e responsabile di numerose azioni contro di esso. Va anche aggiunto che insieme ad Hezbollah era uno dei coordinatori del “Asse di Resistenza” contro Israele.
Se da un lato Hamas faceva subito sapere che questo attentato non ne avrebbe piegato la resistenza e che Israele verrà alla fine sconfitto, lo Stato maggiore ebraico avvertiva che ovunque fossero i suoi capi, sarebbe riuscito a scovarli e li avrebbe colpiti. Questa azione dunque non può che interpretarsi come un chiaro messaggio ad Hamas. Aggiungerò che anche le date hanno una loro importanza: questo attacco è avvenuto infatti il giorno prima dell’anniversario dell’uccisione del generale iraniano Soleimani. Lo schiaffo per Hezbollah è stato tanto più forte in quanto al-Arouri è stato colpito in quella che è considerata una della roccaforti del gruppo sciita.
Fulminee le reazioni: il premier libanese Mikati accusava Israele di “crimine”, dalla Turchia il presidente Erdogan condannava fermamente l’attacco ed ordinava l’arresto di 34 persone sospettate di spionaggio a favore di Israele. Per sottolineare il suo appoggio alla causa palestinese, egli poi moltiplicava le invettive contro lo Stato Ebraico ed incoraggiava vaste manifestazioni contro di esso. In Cisgiodania il premier dell’Autorità Nazionale Palestinese condannava l’assassinio, mentre a Ramallah la popolazione, scesa in strada per una grande manifestazione, gridava vendetta. Hezbollah, dal canto suo, dichiarava che questa azione non sarebbe rimasta impunita e minacciava ritorsioni. Più cauto, il presidente francese Macron rivolgendosi ad Israele chiedeva di non allargare il conflitto al Libano.
Da parte delle forze armate israeliane, che intanto si stavano riorganizzando per affrontare a Gaza una guerra di lunga durata allo scopo di sfiancare prima ed eliminare poi il nemico, giungeva l’avviso che a questo punto era possibile aspettarsi di tutto.
Chi era al-Arouri: Al-Arouri era nato a Ramallah in Cisgiordania. All’età di 19 anni si iscrisse all’Università di Hebron per studiare la legge islamica. In quel periodo entrò in relazione con l’ala giovanile di Hamas che gli fornì l’occasione di entrare in contatto con un agente dell’organizzazione che lo prese con sè affidandogli poi il compito di collaborare al finanziamento di parte dell’apparato militare di Hamas a Hebron.
Fu arrestato per sei mesi nel 1990 a seguito dell’uccisione di tre minorenni israeliani. Passato poco tempo finì nuovamente in prigione, ove trascorse 15 anni per il suo ruolo di leadership in Hamas. Nuovamente arrestato nel 2007, venne rilasciato nel marzo 2010, nella speranza di facilitare la liberazione del soldato Gilad Shalit, che Hamas aveva catturato nel 2006.
Trasferitosi presso il quartier generale dell’organizzazione a Damasco, ove si dice abbia avuto un ruolo nella liberazione finale del militare israeliano Shalit in cambio del rilascio di circa 1000 detenuti palestinesi in custodia di Israele. Lì entrò a far parte dell’ufficio politico di Hamas guidato da Khaled Meshaal ed è stato anche tra i fondatori delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas.
Per via della guerra civile scoppiata in Siria, a seguito degli eventi della Primavera Araba, egli abbandonò Damasco per tornare in Turchia e riprendere le sue attività con Hamas, tanto che nell’Ottobre 2012 si recò a Gaza per partecipare alla visita dell’emiro del Qatar. Un certo numero di inchieste lo vedono coinvolto in operazioni finanziarie clandestine per incrementare le capacità operative degli apparati di Hamas. Si dice anche fosse coinvolto nella pianificazione di operazioni e nel reclutamento.
Di tutto ciò la Turchia era al corrente e non lesinava finanziamenti ad Hamas. Il presidente Erdogan non riteneva si trattasse di un’organizzazione terroristica e voleva fare di Hamas un membro accettato della comunità internazionale, cosa che contribuì a danneggiare i rapporti con Israele. Gli Stati Uniti preferirono chiudere un occhio per non intaccare le relazioni con Ankara, non solo partner fondamentale nella NATO, ma anche molto importante per la politica di Washington nella regione.
Nel dicembre 2015, a seguito dell’intenzione del presidente Erdogan di migliorare i rapporti tra Turchia e Israele, circolarono voci che al-Arouri avesse lasciato Istanbul e facesse la spola tra il Libano ed il Qatar, emirato che per anni aveva ospitato Meshaal e l’ufficio politico di Hamas ed ancora oggi è la dimora di importanti esponenti dell’organizzazione palestinese quali Ismail Haniyeh, che dal 2019 si trova appunto a Doha.
Un secondo attentato: A Kerman, nel sud-est dell’Iran, nel corso di una cerimonia per commemorare il quarto anniversario dell’uccisione da parte americana del generale Soleimani, in un doppio attentato si annunciava la morte di un centinaio di persone ed il ferimento di altre 180. Non veniva fatta nessuna rivendicazione. Anche in questo caso la data non è stata casuale.
Il generale Soleimani era stato un personaggio di spicco nell’apparato dei Guardiani della Rivoluzione. Ne sovraintendeva le operazioni all’estero ed aveva un ruolo importante nel consolidare e coordinare i rapporti tra il suo Paese, le fazioni palestinesi ed Hezbollah. Particolarmente popolare e carismatico, egli era ben visto anche dagli apparati del regime in quanto privo di ambizioni politiche. Venne ucciso alle prime luci dell’alba del 3 Gennaio 2020 all’aeroporto internazionale di Baghdad per rappresaglia da parte americana. A colpire la sua auto fu un drone ed insieme a lui rimase ucciso il capo delle Forze di Mobilitazione Sciita irachene.
Senza sorpresa, l’ayatollah Khamenei prometteva immediatamente una risposta dura e severa, mentre da parte sua il presidente Biden escludeva qualsiasi possibilità di un coinvolgimento americano o israeliano. Anche se il regime non era disposto ad ammetterlo, per quest’ultimo non erano assenti pericoli interni: nel Paese vi sono organizzazioni e strati della società ostili alla Repubblica Islamica che da tempo si domandano cosa fare per liberarsene. In questo contesto vanno ricordate anche le numerosissime e continue proteste seguite alla morte della giovane Mahsa Amini e soffocate nel sangue.
Nel contesto più vasto va ricordato che l’Iran, per emergere nella regione ed estendervi la sua influenza, si era eretto a rappresentante della famiglia musulmana e della causa palestinese. Dopo l’attentato il regime proclamava una giornata di lutto nazionale.
Così come è palese che in questo evento gli Stati Uniti non avessero avuto alcun ruolo, è altrettanto evidente come lo stesso possa dirsi di Israele: quest’ultimo infatti non avrebbe nessun interesse a condurre un’azione di questo tipo proprio il giorno seguente l’uccisione di al-Arouri a Beirut. E’ anche d’uopo sottolineare che questa dinamica di doppio attentato non ha a che vedere con il modo di procedere dei servizi israeliani che una rappresaglia di questo tipo non l’avevano mai fatta. E’ anche evidente che, come nel caso dei suoi vicini, nessuno nello Stato Ebraico fosse disponibile ad agire in modo tale da rischiare un conflitto più vasto. Dello stesso avviso il Dipartimento di Stato americano, che ha sottolineato come non sia nell’interesse di nessuno andare a peggiorare la situazione in Medio Oriente.
L’attentato ad al-Arouri non è che una realizzazione della promessa di Israele di stanare e colpire i responsabili dei fatti del 7 Ottobre. E’ inevitabile attendersi ulteriori operazioni di questo tipo, ma nulla a che vedere però con il doppio attentato di Kerman.
I discorsi di Hassan Nasrallah: Nella stessa giornata, che ha seguito quella della morte di al-Arouri, il leader di Hezbollah ha pronunciato un discorso che tutti attendevano con interesse, soprattutto a Gerusalemme. A nessuno in Israele sfugge infatti la determinazione di questa organizzazione sciita nè la sua capacità di agire: si sa bene che, se Hamas rappresenta un pericolo, molto più grave è quello collegabile ad Hezbollah, considerato dalle dieci alle quindici volte militarmente più forte.
Il leader sciita, svolgendo la sua parte al meglio, ha accusato Israele di genocidio e ha attaccato Washington per il suo appoggio all’offensiva su Gaza. Egli ha poi sottolineato l’intenzione di vendicare la morte di al-Arouri per solidarietà verso Hamas e per scoraggiare futuri attacchi sul suolo libanese, in particolare a Beirut. Questa parte del suo messaggio era pensata soprattutto per coloro che abitano nei quartieri meridionali di Beirut, luogo dove è avvenuto l’attacco che ha ucciso il leader di Hamas. Se Israele dunque dovesse tentare ulteriori azioni non potrà che pentirsene e pagarne le conseguenze. Con queste parole ha fatto capire come questo attacco, benché non rivendicato, fosse partito da Israele e che da parte sua non mancherà una risposta.
Andando oltre, ha poi dichiarato che se lo Stato Ebraico intendesse portare la guerra in Libano, Hezbollah combatterà fino in fondo con decisione, senza regole, limiti e restrizioni: l’uccisione di al-Arouri non è tollerabile, nè resterà senza risposta. Egli sarà vendicato. In questo suo discorso, della durata di un’ora e mezza, ha evidenziato la determinazione dei suoi, insieme alla loro capacità di resistenza, accusando Israele di non rispettare le decisioni della comunità internazionale e di violare le risoluzioni delle Nazioni Unite.
In breve, ha criticato gli Stati Uniti e diffidato Israele dall’allargare il conflitto al Libano. Dopo questi avvertimenti, ha lasciato intendere che non andrà oltre una campagna a scopo diversivo per costringere Gerusalemme a ritirare le sue truppe dal teatro di Gaza e spostarle alla frontiera con il Libano, allentando la pressione su Hamas.
Da parte libanese, la popolazione ha espresso piena solidarietà alla comunità di Gaza così pesantemente colpita, mostrandosi incredula di fronte alla durezza dell’aggressione israeliana. Allo stesso tempo si è anche diffuso il timore di trovarsi coinvolti in un conflitto tra Israele ed Hezbollah: non tutti infatti accettano volentieri l’idea di ospitare a Beirut i quadri di Hamas e della Jihad Islamica. Nel frattempo, migliaia di persone si sono recate al corteo funebre e alle esequie di al-Arouri al cimitero dei Martiri nel campo di Chatila. Tra la folla erano in molti a gridare la loro ostilità verso Israele e chiedere una risposta a questo crimine sionista. Stretto tra due fuochi, lo stesso governo libanese si è più volte pronunciato contro lo Stato Ebraico, accusandolo di comportarsi in modo criminale.
Nel suo secondo intervento del 5 Gennaio, sempre di un’ora e mezza, il leader di Hezbollah metteva nuovamente in guardia Israele affermando che al momento opportuno avrebbe risposto a dovere alla morte di al-Arouri. Ha poi proseguito con un esame delle operazioni militari condotte alla frontiera con il Libano, enumerando e descrivendo i vari attacchi e le loro conseguenze sull’apparato difensivo israeliano oltre ai danni e le vittime che ha subito. Ha poi confermato che a spingerlo ad agire è stata la volontà di creare un diversivo per Gaza al fine di alleggerire la morsa israeliana. Riguardo lo stesso Israele, con tono minaccioso ha aggiunto che un rischio di intensificazione militare non fa che crescere e che la situazione si sta facendo pericolosa.
Spostandoci ad Israele, quest’ultimo non sottovaluta la possibilità di un attacco da parte di Hezbollah in quanto sa che vi saranno con tutta probabilità delle rappresaglie e si sta preparando ad affrontare i possibili scenari. Non a caso, per via degli eventi in corso, ha già ordinato l’evacuazione di circa 80mila residenti dall’area confinante con la frontiera meridionale del Libano. Lo stesso Stato Maggiore ha dichiarato di non volere sorprese al confine in quanto riconosce e teme le capacità di Hezbollah, ben più pericolose di quelle di Hamas. Non è dunque un caso che il ministro della Difesa Gallant abbia chiesto più volte di agire in modo da allontanare i miliziani di Hezbollah dal confine per costringerli a retrocedere al di là del fiume Litani.
Riguardo le possibilità di un allargamento del conflitto, le reputo quasi inesistenti: si tratta di una partita nella quale ogni protagonista gioca a spaventare l’altro, ma sapendo bene che vi sono dei limiti da non superare: far precipitare la situazione non conviene infatti a nessuno, a cominciare dai due più diretti protagonisti, Israele ed Hezbollah.
Per il primo questo significherebbe l’apertura di un altro fronte, cosa che lo metterebbe in seria difficoltà, vista anche l’intensità dell’operazione in corso a Gaza e le tensioni in Cisgiordania. Riguardo il secondo, invece, un collasso dello Stato libanese, che ne sarebbe l’immediata conseguenza, significherebbe la perdita dell’entroterra senza il quale non potrebbe reggersi. I libanesi dal canto loro temono di restarne travolti, soprattutto se si tiene in considerazione la crisi politica ed economica senza precedenti che stanno vivendo: non sarebbero minimamente in grado di sopportare il peso di una guerra che li metterebbe in ginocchio.
Questo fronte resta comunque attivo, in un contesto di sempre maggiore tensione caratterizzato da un ciclo di azione e reazione con scambi quotidiani di colpi di artiglieria e lanci di razzi. All’uccisione di al-Arouri e di un successivo colpo inferto ad Hezbollah, il gruppo sciita ha di recente colpito la base di Safeh in Israele.
Gli altri protagonisti: A questo sarebbe anche opportuno aggiungere l’Iran, che in tutti questi eventi gioca un ruolo e muove le sue pedine. I protagonisti sono dunque molteplici ed ognuno agisce su di una propria scacchiera che non corrisponde a quella degli altri attori. A Tehran fa certamente comodo destabilizzare la situazione per ostacolare gli accordi di Abramo che, avvicinando Israele ai paesi arabi, finirebbero per isolarla.
La Repubblica Islamica vuole anche porsi come rappresentante della comunità musulmana e delle masse arabe ergendosi a difensore della causa palestinese e, soprattutto, imporsi quale attore imprescindibile sulla scena regionale. Malgrado sfoderi una retorica aggressiva arrivando persino ad invocare “la fine del regime sionista”, agisce con prudenza e moderazione perfettamente conscia che vi sono delle linee da non superare. La prima cosa che ha in mente è la sua stessa sopravvivenza.
L’Iran in fin dei conti va visto come una potenza moderatrice che, così come nella sua partita con Hezbollah e Hamas, non ha alcun interesse che la guerra possa allargarsi all’intero vicinato. Per il suo regime, Hezbollah così come i suoi uomini in Siria, gli Houthi nello Yemen e le sue milizie in Iraq servono a mantenere una pressione su Israele e l’Occidente, marcando la sua sfera di influenza e le sue capacità di proiettarsi nella regione.
Benché parte del gioco regionale di Teheran, Hezbollah conosce bene le falle di Hamas e non manca di realismo. Sa perfettamente quelle che sono le sue debolezze e fino a dove le conviene spingersi: certo è che non ha la minima intenzione di sacrificarsi per Hamas, rappresentante tra l’altro di un Islam sunnita che vive sulla retorica del martirio. Così come Teheran, Hezbollah vuol far vedere che sta dando un suo aiuto: nessuno dei due vuole dare l’impressione di lasciare sola Hamas. Molto di quello che grida lo fa per comunicare all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, che se si vuole evitare un escalation è necessario mettere un freno a Israele.
Degna di nota anche la disponibilità del premier libanese Najib Mikati a considerare un negoziato con Israele sulla definizione della frontiera con il Libano, sino ad oggi mai delineata in modo permanente. Si tratta di un’evidente indicazione di come lo stesso paese dei Cedri non desideri per nulla di trovarsi risucchiato in un conflitto fuori controllo. In quanto a Israele, benché di secondaria importanza per il premier Netanyahu, restano vive nel paese le preoccupazioni per la sorte degli ostaggi.
Per concludere, gli stessi Stati Uniti stanno facendo di tutto per assicurarsi che non vi sia una deriva che porti ad un allargamento dello scontro. Si rendono conto di quanto precaria e facilmente infiammabile sia la situazione e fanno il possibile per tenerla sotto controllo: agiscono al meglio come agente di moderazione, arrivando fino a confrontarsi con l’alleato israeliano sulle modalità della conduzione del conflitto.
Sulla stessa linea l’Arabia Saudita, che si fa sentire il meno possibile limitandosi ad esprimere le sue preoccupazioni e chiedere ai vari protagonisti di mantenere il controllo, la calma e soprattutto la cessazione delle ostilità a Gaza. Come i suoi vicini del Golfo, impauriti e preoccupati dalle circostanze, si trova costretta a prendere le distanze da Israele e a tenere un profilo basso nel timore di suscitare proteste nelle proprie piazze. Molto simile anche la posizione della Giordania, nelle cui piazze sta salendo la popolarità di Hamas per essersi mostrata capace di rimettere sul tavolo la questione palestinese.
Considerazioni finali: Malgrado l’inevitabile retorica bellicista e di minacce scatenata dall’intero contesto nel quale nessuno vuole sentirsi declassato, ogni attore agisce su un piano diverso cercando di spingere i propri interessi e quelle che sono le sue visioni nel quadro regionale. E’ dunque necessario guardare oltre per rendersi conto che ogni parte intende a modo suo sopravvivere.
Resta ineluttabile la necessità di una soluzione politica, anche se può dipendere con chi realizzarla: per arrivarci sarà necessario uno sforzo diplomatico che guardi oltre a tutto ciò che si è sinora fatto e proporre qualcosa di veramente inedito. Prendendo atto dell’eclissi dell’Europa, i soli in grado di fare qualcosa restano sempre gli Stati Uniti. Dovrebbero prendere questa crisi, benché tragica, come una grande opportunità partendo dal principio che vi sono dei periodi nei quali, una volta posti, certi problemi trovano necessariamente la loro soluzione. Dovranno anche rendersi conto che in politica estera tutto è collegato: non vi può essere un avvio di equilibrio in un’area senza includervi quella limitrofa. Fino a che non si giunge ad un accordo comprensivo, non può esservi in quell’area un paese tranquillo. Auguriamoci che, partendo da queste indicazioni, trovino sufficiente fantasia per unire i punti, aggiungere ciò che manca ed arrivarci. Tenendo presente che non si può più tornare a prima della giornata del 7 ottobre 2023.
Edoardo Almagià