Da che mondo è mondo, se una regione o un territorio si spopola, significa che c’è qualcosa che non va. E le cause, ovviamente possono essere tante. Ma, se non vogliamo girarci intorno con complicate analisi sociologiche , non ci resta che una sola diagnosi. La gente va via perché è insoddisfatta della qualità o del tenore di vita che conduce. E, più di ogni altra cosa, non vede prospettive per il proprio futuro.
Questo lo scenario che si è creato, nel Mezzogiorno, negli ultimi trent’anni. Un contesto economico e sociale che si è determinato con la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno, con la fine dell’intervento straordinario e soprattutto con l’avvento di una globalizzazione selvaggia che non conosce né regole né limiti. A malincuore e senza nemmeno rendersene conto, i meridionali si son trovati a vivere, negli ultimi trent’anni, una stagione di “decrescita felice”. Sepolta la Prima Repubblica e, con essa, tutti i partiti che l’hanno ricostruita , si pensava che il futuro del Sud sarebbe stato diverso. Che, questione di pochi anni, il Mezzogiorno si sarebbe allineato agli standard di vita e benessere del Nord Italia .
Invece, il suo cammino non è stato per niente facile. Ed è tutt’ora pieno di ostacoli, frenato da pesanti zavorre che ne compromettono il futuro. Tra le tante “criticità” spiccano la corruzione endemica, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la mancanza di investimenti e lo spopolamento delle aree interne. E aggiungiamo anche le mancate riforme strutturali, come quella della pubblica amministrazione, della giustizia e del mercato del lavoro. Ed ecco spiegata la frustrazione e la delusione dei giovani. L’esodo verso le regioni settentrionali o altri paesi è stato causato dalla ricerca di opportunità migliori. Aggiungiamo anche la carenza di investimenti nelle competenze e nell’istruzione che ha contribuito a una forza lavoro poco qualificata, compromettendo la competitività di tutto il Mezzogiorno.
La centralizzazione delle risorse al Nord, poi, ha alimentato nel Sud un circolo vizioso di sottosviluppo. Con le conseguenti scarse opportunità di crescita in tutti i settori dell’economia e, in certe zone, provocando una bassa, bassissima qualità della vita. Tra tutte le regioni del Sud, forse la Basilicata è quella che sta soffrendo di più. Le ultime rilevazioni dell’Istat mostrano che la sua popolazione al 31 dicembre 2019 ammontava a 553.254 unità, con una riduzione di 5.333 abitanti rispetto all’anno precedente. Rispetto al censimento 2011, c’è stata una diminuzione di 24.782 abitanti. Al 31 dicembre 2021, la popolazione era ulteriormente diminuita a 541.168 residenti, segnando un calo del 6,4% dal 2011. Per quanto riguarda le proiezioni future, le previsioni demografiche nazionali dell’Istat per gli anni 2024-2080 indicano una tendenza generale verso un’ ulteriore decrescita della sua popolazione.
Cala anche la componente giovanile. Con tutto quello che significa in termini di forza lavoro e minore vitalità economica e sociale. E’ ovvio che, con una popolazione in calo, si potranno determinare conseguenze drammatiche sul fronte dei servizi pubblici, come la scuola, la sanità, e i trasporti. Lo spopolamento danneggia soprattutto l’economia locale, limitando le sue opportunità di sviluppo e le occasioni di investimento. Ma i giovani lucani, cosa ne pensano di tutto questo? Secondo un’indagine riportata da un giornale lucano, il 73% dei giovani ritiene che le proprie capacità e competenze siano meglio valorizzate fuori regione. Inoltre, il 44% di coloro che lasciano la Basilicata non prevede di tornare.
La triste verità è che ancora oggi, nonostante fondi, bonus e sussidi, il Pil pro capite della Basilicata è di circa il 70% della media nazionale. Ecco perché occorre una visione più ampia e coraggiosa per intraprendere una politica completamente nuova sul fronte meridionale.
Si è parlato tanto di grandi opere da realizzare nel Mezzogiorno. E dove sono? Che fine hanno fatto tutte quelle infrastrutture civili e sociali che avrebbero dovuto incoraggiare le grandi imprese e le multinazionali a investire al Sud? Sentiamo sempre più spesso la solita solfa. Al Sud, pochi son disposti a investire perché non ci sono infrastrutture adeguate alla produzione, al trasporto e alla commercializzazione dei prodotti. C’è poca innovazione; si investe poco sulle nuove tecnologie; il sistema locale non riesce a fare rete con quello nazionale ed europeo. E hanno perfettamente ragione. Ci vorrebbero tante superstrade che collegano le citta meridionali. La rete ferroviaria è vecchia e obsoleta. Sono pochissime e comunque insufficienti le grandi arterie che dovrebbero collegare le aree interne e le zone industriali ai suoi porti, alle autostrade o comunque ai nodi nevralgici del trasporto su gomma o su ferro.
E’ stato sempre così? Per niente. Il passato ci racconta tutta un’altra storia. A fine Ottocento, l’Italia di Giolitti collegò il Sud al Centro e al Nord con quella ciclopica infrastruttura che furono le Ferrovie dello Stato. Negli anni del miracolo economico fu costruita l’Autostrada del Sole che collegò il Sud al Nord e di fatto provocò l’unificazione del Paese.
I misteri dolorosi, se così vogliamo definirli, sono comparsi al Sud subito dopo la fine dell’intervento straordinario e la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno. E’ inutile girarci intorno, perché da allora, è stato fatto poco o niente. E’ di alcuni giorni fa la notizia che la Silicon Box, una startup di Singapore che costruisce chip, investirà in Italia 3,2 miliardi di euro con un’ occupazione prevista di 1600 addetti. Sapete quali sono le regioni indicate dalla multinazionale? Lombardia, Veneto e Piemonte. Se, come riporta la stampa, la Silicon Box otterrà sussidi dallo Stato, io mi chiedo perché non si potevano candidare anche la Basilicata, la Calabria o la Puglia? Forse perché in queste regioni mancano le grandi superstrade, i porti all’avanguardia, gli aeroporti come quello di Milano o di Fiumicino? Ma perché allora non si progettano, perché si continua a ripetere che i soldi non ci sono? E i cento miliardi all’anno di evasione fiscale? E tutta quella montagna di soldi che la corruzione e le mafie sottraggono allo Stato? Ecco il vero, grande problema del Sud. La mancanza dello Stato. Che, per alcuni territori beninteso, fa poco o nulla per aumentare la ricchezza mentre fa di tutto per mantenere la miseria.
E’ chiaro che al Mezzogiorno serve una svolta. Ma più di ogni altra cosa occorrono intelligenza, coraggio e visione per il futuro. Ci mancano quei grandi uomini come Enrico Mattei. Così come ci mancano quei grandi manager di Stato, che nel secondo dopoguerra, insieme ad altri illuminati politici, banchieri ed economisti proiettarono il Mezzogiorno verso la modernità e il progresso.
Michele Rutigliano