La lettura dolente dello scorrere irrefrenabile del tempo che Eugenio Scalfari ci offre, dalla pagine di Repubblica dello scorso venerdì, sottende la domanda inaggirabile che, pure quando non venga posta espressamente a tema, decide della vita di ognuno.
E’ davvero possibile che quella rigogliosa ricchezza di vita e di umanità che ci circonda e ci arricchisce perfino quando ci turba o si traduce in sofferenza, possa evaporare – senza lasciare traccia alcuna se non un breve tratto di memoria, anch’esso presto destinato al nulla – nel vuoto, perfino inimmaginabile, di uno spazio sterminato e di un tempo onnivoro, che, in definitiva, ci sbeffeggia, irridendo le nostre speranze e le nostre attese, anzi mostrando come altro non siano se non un beffardo ed infernale inganno?
“Il nostro mondo è destinato a vedere il tramonto del Sole, la stella che ha illuminato la varietà e l’ unità del nostro Cielo” è l’amaro approdo cui giunge Scalfari. E se la risposta che contraddice questa accorata conclusione fosse già implicita nello sconforto che, secondo un sentimento di rassegnazione sofferta, sembra accompagnarla? Non traspare, per contro, in controluce, quasi un moto di ribellione, l’attesa, se mai fosse possibile, il desiderio di rovesciare questa china ineluttabile di un destino assurdo?
Del resto, non è forse vero che siamo fatti per dare un senso alle cose del mondo e della vita? Per rintracciarlo nella consistenza della realtà in cui siamo immersi, nella coerenza che ordina i processi naturali secondo catene causali di cui sappiamo darci conto, straordinariamente e misteriosamente sintoniche con le espressioni piu’ alte del nostro pensiero astratto. Ed ancora non è altrettanto vero che laddove questo senso non è immediatamente dato, il nostro impegno è diretto a forgiarlo, finalizzato, ad esempio, a ripercorrere gli eventi della storia per ricostruirne a ritroso connessioni e percorsi che ne consentano una lettura ragionata?
Da dove nasce questa attesa inestirpabile di disegnare un orizzonte entro il quale la natura e la storia – in definitiva lo spazio ed il tempo, le due categorie ultime ed insopprimibili che ci sono date – siano abitate non da cose o eventi sconnessi e sgranati, ma piuttosto rispondenti ad una relazione che sa darne conto appunto perché solo connettendoli ne rivela l’effettiva valenza?
Questa insopprimibile necessità interiore non è forse sul piano logico e cognitivo il riflesso di quel nesso ontologico che percorre da un capo all’altro e connette tutto ciò che è? Non abbiamo forse nostalgia di quell’ “unità del Cielo” – come la chiama Scalfari – che adombra un significato che va oltre la mera fattualità delle cose e ne compone la “varietà” in un orizzonte intellegibile che apre ad una dimensione “altra”? In effetti, l’ orizzonte della “trascendenza” – che non ha a che vedere solo con il momento religioso – è così intimamente costitutivo del nostro sguardo da evocare un silente e doloroso rimpianto ogni qual volta pretendessimo di negarlo.
Siamo il prodotto casuale ed eccentrico di una lotteria insensata cui non dobbiamo nulla, cosicché ciascuno di noi appartiene a sé stesso in esclusiva, secondo un criterio autoreferenziale e solipsistico che, di fatto, ci condanna ad una solitudine sorda oppure la nostra vita è un dono che chiede, a sua volta, di essere donato ? E se questo vale per chi crede, non può, a suo modo, valere anche per chi, a fronte dello spettacolo incomparabile del cosmo, avverte un sentimento di stupore, gratitudine e riconoscenza nei confronti della vita e “sente” di non essere solo, rattrappito nella gabbia di una presunta autosufficienza ?
Non si apre lo spazio di un incontro tra credenti e non, che perfino superi questa categorizzazione e riconosca gli uni e gli altri nel novero di chi sa di non fondare da sé stesso, bensì di essere necessariamente parte di una realtà vasta, solidale ed inclusiva di cui pure ancora ricerca la fisionomia ultima? Non vale forse la pena di accettare l’ invito che Papa Benedetto ha lanciato a rovesciare l’ “etsi Deus non daretur” di chi immagina di attestarvi prometeicamente la vera grandezza dell’ umano, nel suo contrario?
Perché non mettere alla prova, anche sul piano della vita civile, quasi sperimentalmente, anche a fronte dei moti incombenti di una storia che accelera il suo corso, quell’ “etsi Deus daretur” che non offende l’intelligenza di nessuno ed, anzi, le spalanca un campo sconfinato di riflessione alla ricerca di quell’incomparabile “valore umano” che trattiene nelle sue pieghe?
Domenico Galbiati